Giuseppe Gennaro: ricordo di un giudice onesto e di grande intelligenza

La morte del giudice Giuseppe Gennaro, recentemente scomparso, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ed esponente di punta della Procura della Repubblica di Catania ha fatto registrare reazioni e commenti univoci: uomo e giudice esemplare.

Ben altra cosa affermava l’ex ambientalista Giuseppe Arnone, oggi sotto processo proprio per le denigrazioni rivolte al magistrato defunto, pur di raggiungere obiettivi non certo edificanti.

Leggendo, dopo la morte di Gennaro, i testi che lo hanno ricordato si comprende bene quanto strumentale e volgare sia stato l’attacco sferrato da Arnone al giudice catanese che viene ricordato così, sulle pagine de “La Sicilia”, da chi lo conosceva bene, da Francesco Puleio, già Procuratore della Repubblica di Modica ed oggi in servizio a Ragusa:

Per me e per tutti quelli della mia generazione, Peppuccio Gennaro era un mito.

Sul finire degli anni ’70, in una realtà pigra e gelatinosa, in bianco e nero, già immersa, ma ancora pochi ne erano consapevoli, nella melassa tartufesca del compromesso con il malaffare, Gennaro rappresentava a Catania – con pochi altri colleghi – un’idea di magistratura vissuta non più come casta guardiana dei potenti, ma come potere diffuso, tra la gente e per la gente.

Erano (come non proprio benevolmente aveva definito Montanelli quegli operatori di giustizia che mettevano in soffitta le prassi accomodanti) i pretori d’assalto.

Visti dall’esterno, si aveva l’idea (tanto suggestiva quanto sbagliata) che cercassero di cambiare la società impugnando la Costituzione come un grimaldello; che volessero dar l’assalto al cielo, sentendosi un po’ cavalieri romantici e un po’ guerriglieri. La verità era che, in un panorama conformista e naturalmente incline al compromesso, Giuseppe Gennaro ed i suoi giovani colleghi per primi declinavano a Catania il principio che anche i potenti (dell’economia, della politica) potevano essere indagati e che la correttezza amministrativa, l’ambiente, la salubrità dell’aria, la bellezza architettonica delle nostre strade erano beni da tutelare anche attraverso l’esercizio della giustizia penale.

Poi l’impegno antimafia, le prime indagini sulle cosche ed i primi pentiti e maxi-processi (storico rimane quello alla mafia del triangolo della morte, Paternò, Adrano e Biancavilla, il primo celebrato a Catania con oltre cento imputati, frutto della dedizione e dell’impegno appassionato di Peppuccio); e l’attività associativa, il Suo saper essere sempre punto di riferimento per l’Ufficio, per il territorio e per tutta la Magistratura.

Allora io ero già entrato in servizio ed appena arrivato alla Procura di Catania. Ricordo l’emozione provata nel primo incontro e la riverenza che riusciva a suscitare nelle persone che lo circondavano. La mia stanza si trovava proprio di fronte a quella di Peppe, e se chiudo gli occhi lo rivedo ancora mentre vado via: è tardi, ma Lui è ancora chino sulle carte, in una stanza dalle pareti tappezzate da faldoni impilati gli uni sugli altri, con la luce di una lampada da tavolo ad illuminare quei fogli fitti fitti degli appunti che annotava con la sua grafia indecifrabile.

Solo molti anni dopo ho avuto la fortuna di lavorare insieme a Peppe e di imparare a conoscere l’Uomo, che rimarrà per me sempre un esempio di intelligenza, competenza e lucidità intellettuale. Ma soprattutto, di integrità morale, di autentica passione civile, di amore per il Suo lavoro e la Sua terra. Ho imparato di più in due anni di lavoro con lui che nei precedenti venti.

Quel lavoro, il nostro lavoro, che ha interpretato come vocazione, dedicandogli tutto sé stesso e riuscendo – questo è ciò che ho sempre più ammirato in lui – a conservare in ogni occasione, anche tra le incomprensioni e le polemiche, un’intatta serenità di pensiero e di giudizio e una imperturbata capacità di seguire la sua rotta.

Ciao, Grande Peppino e grazie.