Fa male anche oggi leggere nelle cronache che gruppi di turisti recatisi a Palma sulle orme del Gattopardo per visitare il Convento delle Benedettine se ne siano dovuti tornare indietro senza riuscire nell’intento e talora addirittura dopo avere assaggiato malamente i famosi dolcetti delle monache.
Una chiusura ai visitatori che non ha mai deposto bene per il turismo siciliano e per la nostra tanto decantata vocazione turistica. Da qualche anno, dal 2014, l’Archeoclub di Palma, presidente il dottor Fiaccabrino e il comune con il sindaco Amato stanno cercando di correre ai ripari con la collaborazione del Fondo edifici di culto del ministero degli Interni, della Prefettura, della Soprintendenza ai Beni culturali, della Curia arcivescovile, dell’associazione Beata Corbera, delle stesse monache di clausura e del Gruppo Agesci Palma 1. E così anche quest’anno dal 21 al 22 maggio il convento delle Benedettine è stato aperto al pubblico accorso numeroso.
L’eco della riapertura si è avuta nei media soprattutto con un lungo reportage sul settimanale “Lettura” allegato la scorsa domenica al “Corriere della Sera”. Sarà magari per le leggende che circondano la storia del convento, sarà curiosità o bisogno di conoscenza, occorre prendere atto che in quelle stanze conventuali si respira a pieni polmoni l’odore dei secoli che mescolato alla vertigine del barocco e al delirio mistico dei Lampedusa produce scossoni emotivi e spirituali non da poco.
Ad accogliere i visitatori una perfetta organizzazione tecnica formata da Andrea Abruzzo, Filippo Affronti, Peppuccio Cacciatore, Sandro Giganti, Pietro Fiaccabrino, Maurilio Lombardo, Enzo Scarnà, Calogero Puzzo, Gianni Tannorella. Le foto sono proibite, tranne che per i cronisti, e ci è stato persino vietato di fotografare i dolciumi che fanno bella mostra di se su un banchetto posto al termine della visita in uno strepitoso giardinetto interno dove troneggia la statua di san Benedetto. Un vezzo proibitivo che forse vuole alimentare la vendita dei libri sul convento e che impedisce ad altri di godere in privato la visione di autentici tesori d’arte che sono disseminati tra le stanze, le cappelle e i corridoi.
In tempi dove tutti si possiede uno smartphone, reprimere un bisogno di conoscenza, una traccia di ricordo, ci appare molto provinciale. Come tutti ormai sappiamo, il decreto cultura fortemente voluto dal ministro Dario Franceschini ha abolito il divieto di scattare fotografie all’interno dei musei, a certe condizioni (assenza di scopo di lucro, immagini realizzate per fruizione personale, e via dicendo).
L’abolizione del divieto ha scatenato, com’era prevedibile, entusiasmi a non finire. Ma, come spesso accade quando si tratta di cultura, l’Italia sconta un ritardo culturale nei confronti del resto del mondo e il caso delle foto nei musei non costituisce un’eccezione. Siete ancora in tempo fino a domenica per visitare il monastero delle suore Benedettine di Palma di Montechiaro e fra le segnalazioni ci vorremmo inserire artisti come Provenzani, la bottega di Filippo Randazzo, l’irripetibile grandezza delle maestranze siciliane, Ottavio Volante e ignoti pittori che vanno a comporre una enorme pinacoteca ai tempi dell’antenato del Gattopardo e di sua figlia, l’agrigentina beata suor Crocifissa.
Un tempo quello (l’inaugurazione del monastero avvenne nel 1659) durante il quale non si spegneva ancora l’eco dei Borgia e degli ultimi orrori della Inquisizione di cui rimase vittima la stessa suor Crocifissa indagata per le sue crisi mistiche e le sue estasi (una delle quali durata 49 ore) che insospettirono le gerarchie ecclesiastiche. Oggi si può visitare la stanzetta della Beata, il minuscolo giaciglio, uno scrittoio, le scarpe, qualche indumento in vetrina, la “lettera del diavolo” e il cilicio. Il un’altra stanza attigua riposano in una grande urna dorata le sue spoglie mortali e sul davanzale di una grata-finestra fa bella mostra di se la grossa pietra che, secondo le storie, il diavolo le lanciò contro. All’incanto dei soffitti lignei, della trama delle figure lignee scolpite, ai pavimenti di ceramica, ai paliotti ricamati con fili d’oro e altri con fili policromi e grani di corallo, fanno da controcanto atrocissimi Crocifissi di legno tarlato e squamato, quasi una decomposizione e corruzione della carne. L’invasione della dolcezza ti sorprende solo all’uscita quando, oltrepassando uno splendido giardinetto interno con l’effigie di san Benedetto, ti ritrovi dinanzi a un tavolinetto dove ben ordinati sono in mostra i famosi dolcetti monacali che ci è stato proibito fotografare come se la foto rubasse i segreti della cucina conventuale e dei prodotti che si fanno risalire al periodo arabo e poi perfezionati nell’”ora et labora” delle clausure.
La visita che dura 30 minuti non consente al visitatore di chiedere se ci sia ancora suor Nazarena specialista in “marturana, biscotti ricci, bocconetti, pasta reale, agnelli pasquali, buccellati, ciambelloni, mastazzoli, paste nuove, cuori di pasta reale e minni di virgini”.
Da quest’ultima prelibatezza lo scrittore sambucese Alfonso Di Giovanna ne trasse una gustosa (manco a dirlo) e intrigante novella nella raccolta “Per modo di dire”.
Testo e fotogallery di Diego Romeo