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Il boss Leo Sutera e la fuga mancata: “In Ungheria sono seri, qui ci scassano la ….”

La carcerazione patita non lo aveva messo alle corde, anzi.

Ed aveva dimenticato il periodo più ruvido della sua vita da mafioso quando, con Giuseppe Falsone boss di Campobello di Licata (catturato dopo dieci anni di latitanza in Francia) ai vertici di Cosa nostra agrigentina, venne messo in disparte. Posato e reso quasi inoffensivo.

Gli venne bruscamente consigliato di starsene a casa e non occuparsi più delle faccende di Cosa nostra. Al suo posto nella zona belicina ebbero il sopravvento Gino Guzzo, Calogero Imbornone eil compaesano e mezzo parente, Calogero Rizzuto, detto “cavigliuni” oggi pentito. Messi ai posti di comando proprio da Falsone.

Poi, fortificato (da sempre) del rapporto personale e diretto molto privilegiato con Matteo Messina Denaro, ha ripreso le redini della mafia provinciale agrigentina tornando a comandare sino a far esclamare a suoi sodali intercettati: “C’è solo Leo. Ha tutta Agrigento”.

E Leo Sutera era ben consapevole di ciò sino a quando ieri per l’ennesima volta, i poliziotti dello Sco di Roma e quelli  di Palermo e Agrigento, hanno bussato alla sua porta con un provvedimento di fermo firmato dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai sostituti procuratori Claudio Camilleri, Calogero Ferrara e Alessia Sinatra.

I pubblici ministeri temevano potesse scappare all’estero come hanno rivelato alcune intercettazioni, la più importante del 2017: “Appena finisce questa storia me ne vado pure io. Me ne voglio andare all’estero, non ci voglio stare più qua. Ci scassano la minchia continuamente posso contrastare con loro? In Romania, vado in Ungheria. In Ungheria sono persone serie, compro una casa e vado a stare con mia moglie, mia moglie con la pensione, tutti e due in pensione…ti saluto”.

Romina Marceca (Repubblica) spiega al meglio ciò che ha preceduto la cattura di Sutera: “Era arrivato di persona a Palermo per acquistare un rilevatore di microspie. Nel marzo del 2018 è stato un cliente del negozio “Investiga tu” di via Alcide De Gasperi. Ha acquistato un rilevatore di frequenze e subito dopo lo ha utilizzato dentro alla macchina in cui viaggiava con un altro uomo del mandamento. E poi, poco dopo, ha bonificato anche l’auto di un altro uomo a lui vicino.

Insomma, Leo Sutera, ha cercato di sfuggire alle indagini in ogni modo. Alla fine a “tradirlo”, però, è stato un altro mafioso, Vito Bucceri, capo della famiglia mafiosa di Menfi. Il 5 agosto 2016 Bucceri ha cominciato a raccontare ai magistrati i segreti di Cosa nostra agrigentina. Sotto la lente d’ingrandimento sono finiti anche alcuni personaggi vicini a Sutera: gli imprenditori Giuseppe Tabone e Giuseppe Mulè, la fioraia Maria Salvato, Vito Vaccaro e Hedi Chaied. Per loro Sutera era “come un padre” e dicevano che a Agrigento c’era un solo nome: Leo Sutera.

Il ” professore” puntava al potere e a nuovi affari. Non più solo estorsioni. Leo Sutera, il capo della Cosa nostra agrigentina, fedelissimo di Matteo Messina Denaro, continuava a guardare verso nuovi orizzonti. Tanto che si interessò per inserire e proteggere le ditte di imprenditori a lui vicini in due importanti cantieri della provincia: quello della costruzione del ” Paese Albergo” nel quartiere Saraceno di Sambuca di Sicilia e quello della ristrutturazione dell’agriturismo “Santa Margherita” nell’area terremotata del Belice.

Il primo è un progetto di riqualificazione del quartiere per trasformare immobili in residenze turistiche, il secondo ha ricevuto un contributo di 400mila euro dal comune di Santa Margherita Belice per la ricostruzione delle aree colpite dal sisma del 1968.

Sambuca di Sicilia venne eletto ” Borgo dei borghi” nel 2016, lo stesso anno in cui nel paese ci fu molto fermento attorno alla costruzione di un villaggio turistico con 40 alloggi commissionati da una ditta di Palermo, la ” Coretur Viaggi”. Gli investigatori dello Sco e delle squadre mobili di Palermo ed Agrigento hanno ricostruito che, subito dopo la scarcerazione, Leo Sutera si interessò di persona per obbligare il responsabile del cantiere ad affidare all’imprenditore Giuseppe Tabone i lavori per il conferimento in discarica dei rifiuti anche tossici. Una scelta quasi obbligata davanti al padrino agrigentino che non aveva bisogno di ricorrere alle intimidazioni. E così venne estromessa un’altra impresa qualificata nel settore.

Ma Sutera impose anche alcune assunzioni e, attraverso l’intervento di un ingegnere, riuscì ad ottenere anche una parte dei lavori per 130mila euro in favore della ditta di un altro imprenditore, Giuseppe Mulè. Per quest’ultimo il contratto fu a « mezza parola » . L’imprenditore Tabone portò a casa anche un altro risultato: i dieci operai che lavoravano nel cantiere avrebbero pranzato nell’agriturismo ” Rocche del pomo” di Contessa Entellina gestito proprio dalla famiglia dell’imprenditore. Nell’ottobre del 2016 l’intoppo, anche questo risolto dal boss. Improvvisamente i lavori di sbancamento vennero affidati a un’altra ditta e non a quella di Tabone. Sutera fu categorico: «Quello non deve fare niente » . Nell’aprile del 2017 i lavori, però vennero interrotti per il mancato pagamento di ditte e fornitori. Mulè doveva ancora ricevere 80mila euro per i lavori effettuati. Sutera gli fece sapere che sarebbe intervenuto.

Sulla ristrutturazione della ” Casina” a Santa Margherita Belice i fari della magistratura sono ancora puntati. C’è da capire se qualcuno al comune del paese ha agevolato la mafia. Come? Chiudendo un occhio su un presunto abuso edilizio. Sono stati 400 i mila euro di contributo deliberati per i lavori da parte dei proprietari. Lavori affidati a Giuseppe Mulè. Nel maggio del 2014 il proprietario aveva presentato una variante al progetto iniziale per un ampliamento. Continuò i lavori. Nel 2016 però l’avvio dell’agriturismo venne bloccato perché il Comune non rilasciò le autorizzazioni. Durante un controllo due tecnici del Comune di Santa Margherita scoprirono un abuso edilizio. Così cadde una parte del finanziamento, il 18 per cento: cioè 72mila euro. Alla fine per sbloccare la situazione, come documentato dalle intercettazioni e dalle telecamere degli investigatori, scese in campo Leo Sutera contattato dal proprietario. «È questione di soldi?», si limitò a chiedere il capo mandamento. Sta di fatto che uno dei tecnici – sui quali ci sono accertamenti in corso – lasciò un pizzino nella bottega di fiori di una donna molto vicina al boss. Fu lei, secondo le indagini, a portare quel foglietto a casa della madre di Sutera.Per chi indaga è la conferma che quei tecnici comunali vennero condizionati”.