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Processo “Vultur”, il pentito Quaranta si contraddice ma affonda i colpi: “Meli comanda a Camastra, Di Caro a Canicattì”

Dopo il debutto assoluto nelle aule giudiziarie nell’ambito del processo Icaro, Giuseppe Quaranta, nuovo collaboratore di giustizia della mafia agrigentina, irrompe anche nel processo Vultur.

E lo ha fatto oggi in collegamento video da una località protetta che è stata subito svelata improvvidamente ai presenti, imputati compresi, dall’interlocutore che stava dall’altra parte dello schermo.

Comincia con 45 minuti di ritardo l’udienza del processo – folto pubblico, moltissimi parenti dei detenuti e presenti anche le parti civili –  che si sta celebrando davanti il collegio presieduto da Luisa Turco – con a latere i giudici Enzo Ricotta e Rosanna Croce –  e scaturisce dall’operazione condotta dalla Squadra mobile di Agrigento nell’estate 2016 tra Camastra e Canicattì e che vede oggi imputati Rosario Meli, 69 anni, considerato dagli inquirenti capo della famiglia mafiosa di Camastra; il figlio Vincenzo Meli, 46 anni, di Camastra; Calogero Piombo, 65 anni, di Camastra; e Calogero Di Caro, 70 anni, di Canicattì.

Il pubblico ministero è Alessia Sinatra che non si trova d’accordo con gli avvocati difensori degli imputati che chiedevano di rinunciare all’audizione di Quaranta e utilizzare, acquisendoli, i verbali sinora resi dal pentito.

Superato questo primo intoppo procedurale è la volta del collaboratore di giustizia che spazia a ruota libera su molteplici argomenti.

Il favarese si presenta in maniche corte, maglietta blu e jeans, occhiali civettuoli rossi calati sulla testa. Narra della sua affiliazione, con la santina di sant’Antonio da Padova bruciata, la punciuta e il sangue che si mescola: il suo e quello di Francesco Fragapane, aspirante boss provinciale ma non ancora fatto capo. Non ci sono testimoni e padrini come vorrebbe la regola. Ma Fragapane va avanti lo stesso: “se qualcuno chiede diremo che c’era un padrino venuto da fuori”.

Fa una carriera lampo Giuseppe Quaranta: appena affiliato diventa reggente della famiglia mafiosa di Favara, tra le più importanti del panorama mafioso regionale. E in provincia gira spendendo il nome di Fragapane che per valenza mafiosa ha pochi eguali in tutto l’agrigentino. Quest’ultimo si incontrava con tanti mafiosi della provincia: da Nugara a Ribisi, da Spoto a Chianetta.  La sua masseria di Santa Elisabetta diventa (come fu per il padre, l’ergastolano Totò) luogo di relazioni e mediazioni.  Francesco Fragapane insisteva: voleva diventare capo mafia agrigentino o almeno componente della commissione.

E per questo chiede e non ottiene un incontro con Lillo Di Caro. L’ambasciatore è proprio Quaranta che però all’appuntamento non trova di Caro ma tale Angelo, cugino di Peppe Falsone già boss provinciale. Quaranta non ricorda il cognome (lo aiutiamo noi: Middioni) ma sa che è stato arrestato per mafia appena due giorni prima dell’incontro risolutore.

Dura poco, però, la reggenza: dall’ottobre 2013 all’agosto 2014. Francesco Fragapane si lamentava di lui perché non faceva arrivare i soldi ai suoi familiari (testualmente: “Diciva che iu stava facennu moriri di fami a so famiglia”).

La destituzione da reggente avviene grazie a radio-carcere. Fragapane recluso a Spoleto fa arrivare il messaggio ad un altro recluso per mafia, Giuseppe Sicilia, che lo comunica attraverso  i suoi familiari, ai mafiosi favaresi.

Quando seppe di essere stato destituito, Quaranta esultò di gioia.

Già maturava il percorso del pentimento e afferma: Non mi sono pentito perché temevo di essere ammazzato (il rischio è stato concreto) ma per salvare me e la mia famiglia. Per avere una vita nuova e tranquilla”.

E, appena arrestato comunica che vuole collaborare. Dal 22 gennaio al 25 successivo viene rinchiuso nella sezione “sicurezza” del Pagliarelli ed ha dei colloqui investigativi con i pubblici ministeri.  Poi, il 29 comincia formalmente la sua collaborazione con la giustizia.

Ed oggi in udienza, in un italiano accettabile e senza la cadenza del dialetto favarese, snocciola date, episodi, incontri.

Afferma la valenza di Calogero Di Caro, storico mammasantissima di Canicattì, la nobiltà mafiosa, se così si può dire, di Cosa nostra agrigentina sulla breccia già negli anni 80, carcerato e condannato la prima volta nell’ambito del processo Santa Barbara. Preistoria che tuttavia Di Caro rinnova come testimoniano gli arresti, le condanne successive.

Alla preistoria mafiosa sembrava appartenere anche Rosario Meli, detto “u puparo”.

Pare una figura mitologica, un personaggio uscito fuori da “La piovra” di Remo Girone e del commissario Cattani come protagonisti. Invece è lui, “Saru u puparu” qui, davanti il collegio, dentro il gabbione.

Appena arrivato, con molta deferenza, saluta tutti. Poi osserva con attenzione l’evolversi del processo.

Di lui dice oggi Quaranta: “A Camastra comandano i Meli, il padre detto u puparu è il boss mentre il figlio Giuseppe (che è libero, ndr)  è il braccio. Quest’ultimo è il terrore dei commercianti del Villaggio Mosè a cui chiede il pizzo”.

Poi, Quaranta cade in qualche contraddizione, le contestazioni sono numerose e si accende un duello tra pubblico ministero e difesa degli imputati.

Tre ore dopo l’inizio della deposizione, Quaranta termina il suo compito.

C’è stato qualche momento di tensione, specie con l’avvocato Lillo Fiorello che difende l’imputato Calogero Di Caro.

Per quest’ultimo, Quaranta ribadisce il suo ruolo primario nella famiglia di Canicattì, deciso così da Maurizio Di Gati., afferma. Fiorello non si convince e chiede ulteriori ragguagli.

Per chi mastica un pò di mafia, che Di Caro sia capo famiglia per volere di Di Gati, sembra un’affermazione forte.

Noblesse oblige. E Di Gati di noblesse aveva ben poco.

L’udienza riserva qualche altra sorpresa.

A cominciare dalla convocazione come teste dell’ex sindaco di Camastra (comune sciolto per mafia proprio per la vicenda Vultur) il prossimo 21 giugno.