Apertura

Sussurri e grida a Canicattì

Serpeggiavano sussurri e grida all’interno e all’esterno  del convegno organizzato a Canicattì in memoria dei giudici Saetta e Livatino.

Le parole da antologia del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho hanno fatto il paio (epocale) con quelle udite da Papa Bergoglio: “Dio è stato reso muto”.

Parole diverse  che profferite dai vertici di due istituzioni, Stato e Chiesa, rappresentano la dura realtà, ineludibile, di una crisi  della verità per quanto riguarda lo Stato e di una teofania, per molti miracolosa e sempre  sperata, che si infrange sul “silenzio di Dio”.

Meglio, sulle urla del silenzio di Dio, tanto per parafrasare un noto film che riecheggia il Deuteronomio: «Questo popolo si alzerà e si prostituirà con gli dei stranieri del paese nel quale sta per entrare; mi abbandonerà e romperà l’alleanza che io ho stabilito con lui […]. Io, in quel giorno, nasconderò il volto a causa di tutto il male che avranno fatto rivolgendosi ad altri dei».

De Raho si è congedato da Canicattì con precise parole: “Tornando a Roma cercherò di capire meglio cosa accade a Canicattì”, e certamente qualcuno gli dovrà spiegare altri sussurri paesani, altre grida sommerse dall’omertà, dalla paura e perfino da mistiche devozioni e credenze.

I sussurri paesani narrano di una cappella cimiteriale che custodisce le spoglie del suo “compagno di concorso” Rosario,  che rimane” inspiegabilmente” chiusa il  giorno dell’anniversario della barbara uccisione costringendo sindaco e autorità a sostare dinanzi la cappella per deporre una corona di fiori.

Sulle mistiche credenze e devozioni, qualche prete, assente al convegno, potrebbe spiegare a De Raho che se si fosse indetto un convegno su Padre Gioacchino La Lomia la gente avrebbe fatto ressa alla porta del Teatro sociale.

Nella memoria e nell’immaginario collettivo, il padre cappuccino (“Nacque ricco, visse povero, morì santo”) attende dal 1905 un processo di beatificazione dalla “santa burocrazia” vaticana, recentemente si è verificato un miracolo, ci dicono, ma ancora tutto da accertare.

Rosario Livatino probabilmente non riesce a entrare né nella devozione e né nell’immaginario collettivo di una città adusa alla contiguità mafiosa, e dire che il suo martirio, la sua barbara uccisione basterebbero a dichiararlo santo senza miracoli.

Lo sanno benissimo i porporati e i teologi che dovranno applicare la Costituzione apostolica “Divinus perfectionis magister”, e sanno pure che in tempi di corrosa credibilità delle istituzioni l’universo popolo dei credenti avverte il bisogno di fare presto.

Pare che non si avverta per Livatino la stessa sollecitudine  messa in atto per Giovanni Paolo II e una verosimile conferma potrebbe darcela la notizia, appresa di recente, di una lettera inviata dallo scrittore e giornalista agrigentino Matteo Collura al vescovo di Agrigento, Ferraro dove si evidenziava come una beatificazione di Livatino avrebbe rappresentato la suprema condanna per i suoi uccisori.

La lettera di Collura non ebbe risposta ma forse Livatino un miracolo lo fece se, come si è appreso, l’omicida condannato all’ergastolo ha pregato i suoi familiari di deporre un mazzo di fiori sulla tomba del “giudice ragazzino” .

Come si vede mafia e santità continueranno a fronteggiarsi a Canicattì, il silenzio di Dio continuerà. In “Geremia” sta scritto: ”Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso”.