Agrigento, la morte in scena di Liolà incrementa i maschicidi e omaggia il “Me-Too” (ft)

Impossibile per un agrigentino andare a vedere il “Liolà” e non ricordarsi delle tante messe in scena del glorioso Piccolo teatro pirandelliano e del suo interprete Pippo Montalbano che ne fu il reggitore per anni  insieme allo zu Simone del non dimenticato Giovanni  Russo Archeoli. 

E certamente Francesco Bellomo il regista di questa edizione del Liolà e figlio dell’attore Nino Bellomo che sorreggeva il “Piccolo” come una delle colonne recitanti, si sarà ricordato delle fatiche e dei fervori artistici di quegli anni, fino al punto di sovvertire l’epilogo della commedia pirandelliana affidando a Tuzza  l’incarico di affondare la lama del coltello nel fianco di Liolà durante un abbraccio traditore in perfetto stile “corleonese”. Giulio Corso, l’interprete accoltellato, vi aggiunge anche una perfetta inclinazione all’indietro del corpo facendolo poi roteare in maniera retorica e greco-plutarchesca  tra le braccia della madre e sulla marna bianca di una accennata Scala dei turchi. 

Molto bella la scenografia di Carlo De Marino, di campestre c’è ben poco. È scomparsa  l’aia, le contadinelle vestite da (dichiarati) anni 40 hanno tacchi a spillo e non sbucciano mandorle ma preparano l’arigano; sempre azzeccate le musiche di Mario D’Alessandro che le firma insieme a Roberto Procaccini.

A darti l’idea del tradizionale Liolà, ecco spuntare in cima alla marna bianca lo zu Simone di Enrico Guarneri subito accolto da scroscianti applausi. E certo non sarà per gli stivaloni che indossa perché Guarneri si porta dietro una serie di spettacoli che al “Pirandello” di Agrigento hanno lasciato il segno: “Mastro don Gesualdo”, “Il consiglio d’Egitto e “La Governante”.

Quindi sovversione e ribaltamento di un finale, meglio “epilogo” dove Liolà veniva ferito di striscio e ponendo le mani sulle testoline dei tre bimbi  che qui non si vedono mai dice a Tuzza incinta di lui: ”Non piangere, non ti rammaricare. Quando ti nascerà dammelo pure, Tre e uno quattro. Gli insegno a cantare”.

La “nemesi” scatta all’inizio dello spettacolo allorchè il regista Bellomo annuncia un ritardo a causa della indisposizione di Anna Malvica, la zia Croce. A sostituirla  viene chiamata Rosa Maria Montalbano, figlia di quel Pippo Montalbano che aveva obbedito gelosamente alle didascalie pirandelliane con successo di pubblico. Era destino, mi sono detto alla fine, la sorte ha messo in scena Rosa Maria quasi ad ammonimento che certi ribaltamenti non è lecito farli.  Neanche Strehler avrebbe osato e si consentì un suo finale ne “I giganti della montagna” sol perché Pirandello non riuscì a scriverlo.

Sul foglio di sala Bellomo scrive citando Gramsci:“Liolà è il prodotto migliore dell’energia letteraria di Luigi Pirandello, è una commedia che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, Mattia Pascal, il melanconico essere moderno vi diventò Liolà, l’umo della vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica”. Bellomo però non cita cosa scrisse Gramsci del Liolà che debuttò la sera del 4 aprile 1917: ”Liolà che ha sempre la gola piena di canti, che entra sempre nella scena accompagnato da un coro bacchico di donne, accompagnato dai suoi tre altri figlioletti naturali che sono come dei satiretti che ubbidiscono all’impulso della danza e del canto, che sono impastati di suono e di danza come le creature primitive dei drammi satireschi. Liolà voleva sposare Tuzza, la nipote di Simone, prima che fosse imbastito il trucco dell’erede, ora che l’erede legale c’è Tuzza vorrebbe essere sposata, ma Liolà non vuole, non vuole rinunziare ai suoi canti, alla danza dei suoi figlioli, alla vita dionisiaca del lavoro lieto: e il pugnale di Tuzza è stroncato dalle sue mani che però non sanno l’odio e la vendetta. Ma per il pubblico ci voleva il sangue o il matrimonio, e perciò il pubblico non ha applaudito”.

Ecco il panico che avrà preso Bellomo, l’aspetto redditizio della commedia ed è lo stesso Gramsci in questa famosa recensione del 1917 a ricordare che l’insuccesso del terzo atto “ha determinato il ritiro momentaneo del lavoro dalle scene, dovuto a ragioni estrinseche: Liolà non finisce secondo gli schemi tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio, e perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non poteva finire che cosí come è, e pertanto finirà con l’imporsi”.

E Bellomo non si è fidato della profezia di Gramsci sulla “redditività” della commedia, esorcizza il ricordo dei successi del “Piccolo Teatro” dove anche lui crebbe come attore e futuro impresario teatrale. Così facendo offre l’idea di incrementare nella narrazione teatrale il numero dei maschicidi che in Italia, (udite udite), superano di poco quello dei femminicidi, omaggiando la ferocia rituale del “Me-Too” prossimo ad una barbarie spesso condita di ipocrisia e opportunismo. Senza contare che era stato proprio Pirandello a ridefinire “l’epilogo” (guarda caso sua prima opera) e tirarlo fuori dalla sopravvivenza arcaica dei modelli antropologici, biblici e greci, esplorando la possibilità dell’epilogo come prospettiva del dopo.

Una struttura aperta quella pirandelliana, dove non ci sono morti, dietro le quinte  si sentono solo i colpi di pistola come ne “La Morsa”,Sei personaggi” e una coltellata parodica in “Questa sera si recita a soggetto”  e una di striscio in Liolà.

Tutto rimane pressocchè indefinito (o si deve supporre)  persino ne “La trappola”, tragico soliloquio di morti e morticini dove “l’uomo ormai sa di essere su una invisibile (e oggi invivibile) trottolina, granellino di sabbia impazzito che gira e gira senza sapere perché”.

Bene incastonati gli attori con Giulio Corso ed Enrico Guarneri  in prima fila e poi Roberta Giarrusso, Caterina Milicchio, Margherita Patti, Alessandra Falci, Sara Baccarini, Giorgia Ferrara, Federica Breci, Ileana Rigano.

La partecipazione di Anna Malvica è stata sostituita da Rosa Maria Montalbano che ha operato un piccolo miracolo di raccordo scenico.

Bellomo ha voluto dedicare lo spettacolo a sua sorella Virginia, attrice del “Piccolo” e a Pippo Montalbano.

Doveroso.

Testo e foto di Diego Romeo