Prima regola: tacere. Il coraggio della denuncia di Pippo Fava

Cinque colpi di pistola, la sera del 5 gennaio del 1984, spegnevano a Catania una delle intelligenze più brillanti e attive del giornalismo, della letteratura, del teatro siciliano: Giuseppe Fava, Pippo per gli amici.

Trent’anni dopo quell’efferato delitto di mafia, la Catania dei loschi interessi, del malaffare, dei centocinquanta omicidi l’anno, in parte, non esiste più e in buona parte ha mutato pelle, metodi e obiettivi.

Adesso non si spara più, e ancora meno si colpiscono i giornalisti, anche perché il giornalismo, e la letteratura di denuncia, sono ormai un lontano ricordo obliterato dal tempo, e dalla presenza di una pletora di media sempre meno pluralisti e sempre meno guardiani del potere. Pippo Fava visse in un periodo dove in Sicilia un articolo “fastidioso” poteva costarti, nella migliore delle ipotesi, il posto di lavoro, e nella peggiore la vita, le sue coraggiose scelte lo condussero a subirle, purtroppo, entrambe.

“La Catania di quegli anni era allineata sulla regola del silenzio informativo. Un silenzio minuzioso che calava su tutto quanto, anche la cosa più banale che disturbasse i padroni della città”.

Pochi anni prima, Peppino Impastato, altro coraggioso giornalista di Cinisi, nato per caso il 5 gennaio, gli era toccata la stessa sorte di Fava. Con l’assassinio dei due giornalisti, il messaggio mafioso lasciava pochi margini a dubbi: anche i media dovevano sottomessi alla nuova autorità delinquenziale costituita. E in Sicilia, in buona parte, si sottomisero.

Prima regola: tacere dunque, ciò che invece, Fava non è mai riuscito a fare sia per indole, sia per rispetto del suo amato lavoro di giornalista scrittore, fino alla sua ultima intervista nel dicembre 1983 che, virtualmente, ne decretò la condanna a morte. Ma il giornalismo non fu per Fava l’unico strumento  mediatico di denuncia, difatti, nonostante avesse profuso le sue energie migliori nel mondo dell’informazione, non limitò il suo estro creativo solamente negli “angusti” spazi dell’articolo su carta stampata, la sua produzione spaziò dalla letteratura a quella, ancora più vasta, teatrale, transitando dal drammaturgo, anche se per i media rimarrà sempre un mero giornalista controcorrente, ma nulla più, non concedendo il dovuto spazio, e sufficiente agio culturale, a opere come “La Violenza” (1969), “Cronaca di un uomo” (1966), “Gente di rispetto” (1975), “Passione di Michele” (1980), “Ultima Violenza” (1982).

E anche per questo suo denso lavoro, che ha come fulcro quella Sicilia fatta di sudore e violenza, ciò che è diventato oggetto di tesi non è il Fava giornalista ma principalmente lo scrittore, che con i suoi romanzi/saggi, oltre a deliziarci con uno stile ammaliante, non perde occasione per descriver e denunciare fatti e mali della sua terra, dove la rassegnazione, l’omertà, l’essere costretto a dover piegare sempre la testa, se non sono nell’indole, lo sono adesso, artificiosamente, nella sua cultura, e da troppo tempo.

Giornalista scomodo, giusto per usare un eufemismo, considerando che, le sue inchieste, non perdonavano niente a nessuno, compreso chi patrocinava il “Giornale del Sud”, nel periodo in cui, per meno di due anni, ne fu direttore. “E cominciò a raccontare le stragi, gli attentanti, gli omicidi e tutta la violenza che flagellava Catania al ritiro di un morto ammazzato al giorno, facendo per la prima volta nomi e cognomi dei capi clan. Il giornale del Sud non scriveva che la vittima era stata uccisa in una guerra tra clan rivali, scriveva che un commando di Nitto Santapaola aveva ammazzato un killer del clan Ferlito. E quando la variopinta compagine che rappresentava l’editore del giornale gli chiese di attenuare i toni, di essere più prudente, lui rispose che non se ne parlava neanche. Ecco: se uno voleva fare infuriare Giuseppe Fava, bastava che gli proponessero di fare un piccolo compromesso, giusto per un giorno, per una storia minore, con la sua coscienza di giornalista. Era il sistema migliore per ottenere l’effetto contrario.”

Le numerose inchieste sul malaffare in Sicilia, dal sacco edilizio delle principali province dell’Isola, fino al tentativo di sviscerare i retroscena politici ed economici che sostenevano concretamente un fenomeno mafioso sempre più dilagante, gli costarono numerose censure, mutati nel tempo in minacce ed attentati, fino all’inevitabile licenziamento dalla direzione del quotidiano. Ma Pippo Fava non era di certo un uomo da arrendersi alle prime difficoltà, così, insieme a diversi redattori del “Giornale del Sud”, più vicini al suo stile e – soprattutto – alla sua idea di cosa si intendesse per libertà di stampa, fondò una cooperativa editoriale dal nome “Radar”, registrando una nuova testata: “I Siciliani”. Un mensile tutto suo, finalmente, dove gli argomenti di mafia, società e ambiente erano i preferiti, e più numerosi, di una rivista innovative, oltre che nella grafica, soprattutto nei contenuti.

“Io mi batterò sempre per cercare la verità, in ogni luogo ove ci sia confronto fra violenza e dolore umano, e capire il perché”.

Così recita, nella battuta finale di “Ultima Violenza”, lo stesso protagonista: il suo barbaro omicidio, la notte del 5 gennaio 1983, sarà l’efferata risposta a questo insoddisfatto desiderio.