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Mafia, “rete di pizzini più fragile”: comunicazioni difficili per Messina Denaro

Comunicazioni piu’ difficili per il superlatitante. Secondo la Direzione investigativa antimafia di Palermo, gli ultimi arresti e adesso il sequestro da 13 milioni di euro ai quattro fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro, operato da Polizia di Stato, carabinieri e Guardia di finanza, rappresentano un colpo non solo al patrimonio del clan e del capomafia, ma anche alla sua complessa rete informativa. Toccava agli indagati presidiare il flusso dei ‘pizzini’ diretti al capomafia o da lui provenienti e destinati alle diverse cosche mafiose della provincia di Trapani. La rete si strutturava su riservatissime comunicazioni tra gli arrestati che utilizzavano alcuni insospettabili per fissare appuntamenti in isolatissimi luoghi delle campagne tra Salemi, Mazara del Vallo, Santa Ninfa e Partanna. Gli arrestati avevano compiti precisi.

All’anziano boss di Mazara del Vallo Vito Gondola, come rivelato da intercettazioni, era stato attribuito il compito di gestire i tempi e i modi di consegna e distribuzione della “corrispondenza” di Messina Denaro. Lo stesso capomafia aveva dovuto individuare dei “tramiti” (cosi’ chiamava i suoi uomini di fiducia lo stesso latitante nei biglietti sequestrati in precedenza) di provata affidabilita’ per poter comunicare in maniera riservata con altri capimafia: il reggente di Salemi Michele Gucciardi, nonche’ l’imprenditore Giovanni Domenico Scimonelli, ritenuto un anello cruciale deli interessi di Messina Denaro, uomo di collegamento con ambienti economici siciliani e nazionali, e l’allevatore Pietro Giambalvo. La trasmissione della riservata corrispondenza, secondo quanto emerso, avveniva con cadenza trimestrale e con modalita’ dettate dallo stesso latitante che, evidentemente al fine di scongiurare ogni possibile tentativo da parte degli investigatori di risalire alla filiera di trasmissione dei pizzini, aveva deciso di evitare contatti piu’ frequenti contatti con i suoi affiliati. Lo scambio dei messaggi avveniva in aperta campagna, nel corso degli incontri tra gli indagati che, secondo recenti indagini, dopo l’arresto, avevano dato mandato ai loro congiunti di vendere parte dei propri beni per evitare eventuali provvedimenti di sequestro.