Agrigento: il sogno di una città ideale nell’”Upupa” di Antonio Orfanò

Il mite settembre stravolto dai cambiamenti climatici? Sembrerebbe di si per quella trentina di spettatori che l’altra sera hanno assistito alla messa in scena di “Upupa” scritto, diretto e interpretato da Antonio Orfanò.
Spettacolo sempre nuovo che dal 1992 ha girato per i teatri greci-romani, festival e rassegne straniere.
“Le ali dell’uomo sono la fantasia” dice chiaramente il testo di Orfanò, che aggiunge “la vita non è uno scopo, è un desidero”.
Ma è anche il sogno di una città ubicata tra cielo e terra, da cui il sottotitolo dato alla commedia :”Il mio sogno è il mio re ribelle”. Come in “Mediterraneo” di Salvatores, Antonio Orfanò potrebbe scriverci l’epigrafe “Dedicato a tutti quelli che scappano”.

Danza nell'Upupa
La suorina danzatrice
L'Upupa di Orfanò
Tre degli interpreti. dell'opera di Orfanò
Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo

Infatti in una estesa e comprensibile dichiarazione è ancora Orfanò ad illuminarci delle intenzioni del suo spettacolo che riecheggia un preciso riferimento a “Gli Uccelli” di Aristofane: “Upupa è una metafora senza tempo, il simbolo della speranza di un mondo più bello, più armonioso. L’intreccio di stili e di miti è tale da disarmare qualsiasi spettatore, che sarà chiamato a sognare e riflettere. Lo smarrimento, la confusione, l’incertezza, la violenza degli eventi – spiega ancora Orfano’ nelle note di regia – sollecitano la fuga e la ricerca, rimettendosi così all’immaginifico quale misterioso, ineluttabile e insopprimibile valore di vita: l’uomo, quindi, spiega le ali evadendo da una realtà limitata, dissacrata e mortificata, pensando a un “mondo ideale” come giusto e legittimo corrispettivo: questo luogo utopico è “Upupa” dove il mondo degli uomini è visto dall’alto e con distacco. In questo mondo ideale immagina di trovarsi, in una sequenza onirica, l’aristofanesco Pistetero per il quale “Upupa” è il rifugio, la speranza e il sogno dell’uomo e di ogni giovane in particolare. Nel sogno tutto è perfetto, persino la malvagita’ del “Potere” e’ gentile: infatti, il “Potere” ingannatore s’intrufola nella nuova citta’ e, servendosi dei propri poteri, abbaglia, avvince e priva Pistetero del proprio sogno. Risvegliatasi l’antica coscienza che lo aveva portato ad “Upupa”, Pistetero si avvede della distruzione del proprio “sogno”. Ed è qui – spiega ancora Antonio Orfano’ – che si entra nella seconda fase del dramma: la ribellione. Infatti Pistetero sciorina e brandisce la propria esplosiva e dignitosa ribellione: “Il mio sogno è il mio re ribelle” come creatura vivente nel miracolo di una nevrotica e scalpitante “fantasia-certezza” in cui si concretizza una funzione di immagini e finzioni. Alla fine l’uomo, con la sua capacità di creatività e fantasia e il suo desiderio eterno e ineluttabile di sognare devono prevalere e sovrastare il reale”.
E per essere una metafora senza tempo, Antonio Orfanò approda ad un’arte totale che però lui non dichiara per discrezione ma che risulta evidente nel rivestimento brechtiano, nelle folate da repubblichetta di Weimar e nei tanti angoli della scena disseminata da installazioni attoriali dolci spesso e inquietanti, talora, come un assalto blakblok, o se volete da “Terrore e miseria del Terzo Reich” Di assoluto riguardo l’atmosfera creata dalle musiche di origini brechtiane o fassbinderiane per poi culminare nelle carezze di Frank Sinatra e della grande musica hollywoodiana quasi ad attenuare la fragilità di un sogno difficile e improbabile da raggiungere e realizzare. Del resto anche per Brecht l’eroismo era un concetto precario e che il dramma di Galileo non era una tragedia. Anche la danza (con interpreti tutte brave e citrigne) si inserisce in questo andante di grandezza e squallore con segni coreutici che rimandano allo psichico e al sociale, al simbolico ed emotivo. Uno spettacolo in definitiva che può avere ancora lunga vita, magari accorciandolo (dura due ore) e che ha suggerito a Orfanò, nel suo saluto al pubblico, di aggiungere anche i complimenti per la resistenza degli spettatori.
Anche per la gelida brezza settembrina che dovrebbe convincere il Parco Archeologico a evitare spettacoli all’aperto nell’ormai infido ma incolpevole settembre.