Agrigento: Procura ricorre in Cassazione ‘Arnone deve tornare in carcere’

La Procura di Agrigento insiste e presenta ricorso in Cassazione per fare tornare in carcere Giuseppe Arnone, il noto legale agrigentino finito in galera nel novembre scorso con l’accusa di estorsione.

Dopo un breve periodo in carcere e di arresti domiciliari, il Tribunale del Riesame di Palermo aveva scarcerato, poco prima di Natale, Giuseppe Arnone perché, secondo i giudici, “il reato di estorsione non c’è e se sussistesse quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quest’ultimo non consente la custodia cautelare”.

Ecco perché Arnone era tornato n libertà dopo l’annullamento dell’ordine di custodia cautelare del gip di Agrigento. Arnone era stato arrestato il 12 novembre con l’accusa di estorsione alla collega Francesca Picone. A fermarlo, all’uscita dello studio della collega dove aveva intascato due assegni per un importo di 14 mila euro, erano stati i poliziotti della Mobile di Agrigento.

L’ordinanza di custodia cautelare in carcere era stata firmata dal Gip di Agrigento Francesco Provenzano. Secondo la Procura, quei soldi sarebbero state “le prime due rate di una tangente di 50 mila euro” che Arnone avrebbe chiesto a Picone per “non alzare clamore mediatico su una pregressa vicenda giudiziaria che vede la donna imputata per irregolarità nei confronti di una sua cliente”, successivamente assistita proprio da Arnone. Arnone ha sempre sostenuto davanti ai magistrati che quegli assegni erano legittimi e dovuti nell’ambito di una transazione tra Picone e la sua cliente che non si sarebbe costituita parte civile nel processo all’avvocatessa imputata di estorsione. E il Tribunale del Riesame gli aveva creduto, rimettendolo in libertà.

Adesso, invece, il Procuratore Luigi Patronaggio, l’aggiunto Ignazio Fonzo e i pm Carlo Cinque e Alessandro Macaluso hanno deciso di impugnare il provvedimento e in un ricorso lungo 23 pagine spiegano i motivi per i quali Arnone deve tornare in carcere.

Per i pm “la condotta posta in essere dall’indagato è stata, fin dai primi contatti intrattenuti con la persona offesa e con i suoi difensori, tutta incentrata su una continua e costante pressione psicologica che ha ossessionato in maniera parossistica la vittima giunta sino al punto di denunciare l’estorsione”. E spiegano: “Le minacce di una denuncia per associazione per delinquere, della pubblicazione di un dossier analogo a quello denominato ”Sesso e malagiustizia” pubblicato dall’indagato lo scorso mese di agosto, della campagna mediatica finalizzata a diffamare e calunniare la persona offesa hanno in toto annullato la libertà di autodeterminazione della vittima il cui consenso negoziale è certamente viziato”. “Si ritiene pertanto che a qualificare come estorsiva la condotta dell’indagato, a prescindere dall’astratta debenza delle somme richieste in pagamento, siano proprio le modalità utilizzate per piegare la volontà della controparte, consistenti in larvate minacce di distruzione professionale e/o personale della persona offesa mediante organizzate e poi realizzate campagne diffamatorie e calunniose”, scrivono il Procuratore Patronaggio e i suoi colleghi nel provvedimento alla Cassazione.

“Dalla lettura della corrispondenza in atti emerge un continuo tentativo da parte dell’indagato di camuffare le ragioni dell’accordo al fine di darne una vesta giuridicamente lecita, costanti i riferimenti al carattere risarcitorio e alla natura di corrispettivo professionale delle somme richieste – spiega la Procura – In realtà Giuseppe Arnone ha ben chiaro che unico interesse della controparte contrattuale, portato tra l’altro a conoscenza dell’indagato in maniera assolutamente cristallina nel corso dell’incontro oggetto di registrazione, è quello di arrestare l’escalation della campagna mediatica denigratoria e calunniosa comprando il silenzio di chi, per sua stessa ammissione, rappresentava di essere stato capace di distruggere i suoi persecutori (da identificarsi in magistrati di quest’Ufficio e nel Questore di Agrigento, che ha richiesto una misura di prevenzione personale nei suoi confronti)”.

Insomma per i magistrati “il modus agendi dell’indagato, tutto incentrato su minacce di distruzione della reputazione privata e professionale della persona offesa Francesca Picone, ha posto quest’ultima di fronte alla secca alternativa: pagare o patire una campagna mediatica denigratoria e calunniosa potenzialmente distruttiva”.

Per la Procura “agli atti vi è la prova che Giuseppe Arnone abbia agito ben oltre il mandato conferitogli dalla propria assistita, in realtà fuori da qualsiasi delega, piegandolo per proprio esclusivo tornaconto personale e facendone strumento per ricattare, a cagione del rancore personale nutrito verso la donna, la Picone”.

I magistrati non lesinano qualche critica al Tribunale del Riesame che definiscono “ingenuo“. “Sul punto i giudici del riesame, invero ingenuamente, affidano la valutazione delle dichiarazioni rese da Barbiere Giuseppina Cinzia (la donna che si era rivolta ad Arnone ndr) ad una massima di esperienza non verificata e non verificabile, un giudizio assiomatico frutto più di un pregiudizio che di una attenta analisi e verifica degli atti processuali”.

A questo punto la parola definitiva passa alla Corte di Cassazione che dovrà decidere se Giuseppe Arnone, che nel frattempo non solo è tornato al suo lavoro ma ha anche annunciato richieste di risarcimento milionarie ai magistrati che lo hanno arrestato, deve tornare in carcere oppure no. (adnkronos)