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Vittorio Teresi: “La mafia agrigentina ha teste pensanti (ed insospettabili) e braccianti efficienti”

La nuova mafia è 3.0. 

Una mafia multimediale, informatizzata, che non usa più i pizzini, ma corre sulla lunghezza dei clic. Una criminalità veloce, difficile da intercettare, poiché sfrutta il mare magnum della rete. Di questo e di altro ci parla Vittorio Teresi, Pubblico ministero alla Procura della Repubblica di Palermo.

Rivediamo con piacere Teresi, con lui ricordiamo il periodo delle grandi inchieste antimafia dell’agrigentino. Lui, all’epoca procuratore aggiunto alla Dda di Palermo, coordinò le indagini, che decapitarono la cupola agrigentina. Il culmine si raggiunse con gli arresti dei due superlatitanti Giuseppe Falsone e Gerlandino Messina.

Teresi è un magistrato “all’antica”. È uno studioso. Uno stakanovista.

Sguardo vispo, concentrato, dialettica frizzante. Lo incontriamo subito dopo un’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia, un procedimento al quale Teresi sta dando tutto sé stesso. L’udienza è stata lunga, ma il magistrato ha la verve per fare comunque una bella chiacchierata.

Dottore come commenta la relazione annuale della Dna (Direzionale nazionale antimafia)?

“Sono stati formalizzati dei dati che, tutto sommato, si conoscono da un pezzo. C’è un elemento nuovo, la mafia che si converte al mondo 3.0. Una mafia che, per dirla in una battuta, sostituisce i pizzini con i gruppi Whats app. Una mafia che si lancia su nuovi business”.

Per esempio?

“Il gioco d’azzardo è sicuramente un nuovo terreno di investimento. Cosa nostra ha messo le mani sui giochi telematici, sulle scommesse online, consapevole che da lì possono arrivare grossi proventi. Una considerazione dovuta è che sicuramente la mafia siciliana ha arruolato una nuova tipologia di adepti, verosimilmente giovani. Mafiosi che sanno utilizzare con agilità internet, i social e che lo fanno in maniera veloce, abile, così da non farsi stanare. Cambia quindi l’immagine simbolica del mafioso: dal ricattatore prepotente, poco alfabetizzato e di una certa età, a un personaggio dinamico, giovane, debitamente istruito”.

Su cos’altro investe la nuova mafia oggi?

“Cosa nostra ha sicuramente infittito il suo giro di affari nello spaccio di stupefacenti (settore nel quale ha sempre avuto mani e piedi). Consideri che, un tempo, la mafia siciliana investiva in droga, oggi è pressoché una rivenditrice. Vi è – lo dice anche la relazione della Dna – una liaison con la N’drangheta calabrese. Questa controlla le entrate internazionali e quindi smista in Sicilia grossi quantitativi destinati allo spaccio, su cui Cosa nostra ha l’ipoteca della gestione. Capirà che di mezzo vi sono una compagine di figure, di vario peso, che controllano, a vari livelli, il mercato. Altro elemento di novità è il fenomeno delle “colture intensive” di marjuana. Nella zona dello Jato ne sono state individuate parecchio ed anche lì vi è la manus longa di Cosa nostra”.

Nella recente relazione della Dna si parla anche di relazioni tra mafia e politica?

“La contingenza non è nuova. Anzi. Già dalla notte dei tempi, mafia e politica hanno instaurato un rapporto di reciprocità. I boss hanno sempre cercato di trovare una sponda nella politica, da quella locale a salire verso quella nazionale. La mafia può garantire grossi consensi elettorali ed al contempo, sostenendo il politico di turno, riesce a garantirsi interessi importanti, un esempio su tutto gli appalti pubblici. È uno storico do ut des che fa parte delle leggi non scritte della mentalità italiana. Ho ragione di pensare che questa forma mentis non cambierà mai”.

Ritiene che sia stato e che sarà sempre così?

“Vi sono ovviamente delle eccezioni. Non sto dicendo che tutti i politici siano collusi. Le garantisco però che, nella mia lunga carriera, abbiamo individuato intrecci tra politici insospettabili e lobby mafiose. La politica, ahinoi, in Italia è l’arte del compromesso. Basti pensare, senza dover necessariamente coinvolgere le cosche, che molti voti si muovono con la leva della promessa o del ricatto debitamente travestito da buona intenzione”.

Parliamo di antimafia. Quella buona e quella cattiva. Cosa ne pensa?

“Ritengo che ben vengano le associazioni antimafia. Le faccio un esempio, Addio pizzo, al netto di polemiche vecchie e nuove, ha avuto il merito di muovere le coscienze, di definire una linea di demarcazione concreta tra un “prima” ed un “dopo”. È vero che vi sono associazioni che nascono oggi, si costituiscono parte civile, fanno bottino e muoiono domani. Quella non è buona antimafia. Diciamo che, allo stato attuale, l’antimafia non si può e non si deve fare nei convegni, ma deve farsi con un vissuto concreto. La gente comune ha imparato a distinguere”.

Lei conosce bene il fenomeno mafioso agrigentino. Ne ha studiato per anni le famiglie, i boss, i fiancheggiatori. Cos’è e com’è la mafia agrigentina?

“Il primo aggettivo che mi viene in mente è coesa. È sicuramente una mafia potente, una colonna per l’intera Cosa nostra. Il mafioso agrigentino ha due volti: da un lato il boss vecchio stampo, ignorante, ruvido, che sa farsi rispettare, conosciuto e riverito, uomo di mezza parola. Dall’altro il colletto bianco, il politico, il favoreggiatore efficace. La mafia agrigentina ha teste pensanti (ed insospettabili) e braccianti efficienti. Fortunatamente si è stemperata la sua frangia “militare”, ma la rete è ancora fitta”.

La famiglia mafiosa agrigentina torna utile a Matteo Messina Denaro?

“Indubbiamente parecchio. Messina Denaro ritengo si avvalga anche della forza di unità di alcuni clan agrigentini, che ne favoriscono la latitanza. Messina Denaro è un boss furbo, diverso da altri superlatitanti. Dispone di un notevole patrimonio economico e di una certa intelligenza per gestirlo. Ha sicuramente affari e coinvolgimenti nell’agrigentino”.

Parliamo di lei. A gennaio scorso, terminato il suo incarico da procuratore aggiunto alla Dda di Palermo, è tornato ad essere per scelta un pubblico ministero. Può raccontarci cosa è accaduto?

“È stata una scelta travagliata ma necessaria. Ho fatto istanza per alcuni ruoli dirigenziali. Ho una lunga carriera alle spalle, ritenevo di potervi ambire. Ahimè, la commissione del Csm non mi ha mai accordato un solo voto. Dovrei convincermi di essere stato un pessimo magistrato? Chissà! (sorride con una punta di ironia). Ho scelto allora di essere un pubblico ministero e di continuare a seguire il processo sulla Trattativa. Non avrei potuto rinunciarvi. Questo dibattimento credo sia una delle ultime occasioni giudiziarie che ci si presenta per svelare un pezzo di verità sulle stragi degli anni ’90 e trovare quel filo nero che lega quei tristi avvenimenti. Per me è una questione morale, prima che professionale. Lo devo a Giovanni e a Paolo. Non andrò in pensione finchè non si sarà concluso il dibattimento”.

Ci parli di Falcone e Borsellino. Li ha conosciuti bene?

“Pensi, con Paolo ho lavorato proprio ad alcune inchieste nell’agrigentino. L’omicidio del maresciallo Guazzelli è stata una di queste. Con Giovanni ho collaborato a più riprese. L’esperienza cardine è stato un pool antimafia, coordinato dallo stesso Falcone ed antesignano di quello più famoso. Consideri che io ero un giovane magistrato e loro già due fari”.

Alcuni suoi colleghi, a un certo punto della carriera, decidono di entrare in politica, cosa ne pensa? Lei lo farebbe?

“Penso che ben venga la scelta di interessarsi alla cosa pubblica, a patto che, una volta intrapresa la strada (sia che vada a buon fine con un’elezione, sia che si traduca con la consulenza diretta a un personaggio politico) non si torni più in magistratura. Per quel che mi riguarda, non sarei un buon politico. Non sono mai stato bravo nel praticare l’arte del compromesso”.

Considerata la sua dialettica e la sua lunga esperienza, ne avrebbe di cose da raccontare. Ha mai pensato di scrivere un libro?

“Ci ho pensato varie volte. Chissà…”.

Vittorio Teresi ci saluta. Dietro la porta lo aspettano due agenti. È sotto scorta da anni. Lui pare non farci più caso.

Pare.

Lungo il corridoio dell’Ucciardone (dove abbiamo fatto l’intervista), continua a parlarci della Trattativa. Si accalora. Ci crede. Dagli occhi balza il piglio del guerriero, del magistrato di vecchio stampo.

“Ad maiora dottore e grazie”!