Grandangolo intervista l’On.Lumia: ” L’azione dello stato sull’Antimafia del giorno prima e non del giorno dopo”

Dopo la visita della Commissione parlamentare antimafia ad Agrigento nel corso della quale sono stati affrontati i temi di maggiore criticità che affliggono il territorio provinciale, tracciamo un bilancio approfondito con il senatore Giuseppe Lumia, fra i più autorevoli componenti della Commissione, figura di primo piano sul fronte della lotta alla criminalità organizzata.

Senatore Lumia, che situazione ha trovato ad Agrigento?

“La situazione di Cosa nostra nella provincia di Agrigento è sempre stata caratterizzata sicuramente da un profondo e capillare controllo del territorio. Basti pensare che, nonostante i colpi ripetutamente subiti in questi ultimi venti anni, permangono in piedi quarantadue famiglie su quarantatrè comuni della provincia. Rimangono in vita sempre i classici e già conosciuti sette mandamenti, nonostante si sia cercato di formarne un ottavo, ma i due tentativi di questi ultimi anni sono andati sempre a vuoto.  Se riflettiamo sulle caratteristiche storiche della mafia di questa provincia ci accorgiamo che due spiccano sulle altre, al punto di renderla peculiare rispetto alle altre organizzazioni provinciali di Cosa nostra presenti nell’isola. La prima è la capacità di tenere un legame forte con il contesto internazionale. Innanzitutto con le famiglie mafiose americane. La seconda caratteristica è quella di rimanere in stretta alleanza con Cosa nostra di Palermo, spesso con una funzione ancillare e di servizio. Lo Stato non è stato a guardare, le forze dell’ordine e la magistratura hanno colpito duramente boss ed i loro affari. Dall’operazione Cupola” del 2002 si sono ottenuti risultati senza precedenti. Adesso bisogna tornare a riflettere sugli scossoni subiti da queste due funzioni storiche. In sostanza, vanno di nuovo indagate per comprendere quale sarà la Cosa nostra agrigentina nei prossimi anni e provare finalmente a spostare l’azione dello Stato “dall’antimafia del giorno dopo”, “all’antimafia del giorno prima”. 

Pare possa registrarsi un ritorno in provincia di Agrigento di vecchi boss  e loro diretti discendenti che hanno guidato holding criminali all’estero. E’ possibile capirne di più?

“Per comprendere l’attuale caratura internazionale di cosa nostra della provincia di Agrigento, bisogna spostarsi in Canada e mettere a fuoco la guerra di mafia in corso a danno del clan Rizzuto, originario di Cattolica Eraclea. Non è da escludere un ritorno dei Rizzuto in provincia di Agrigento perché in questo momento a Toronto stanno subendo ripetuti e sistematici colpi mortali. E’ da valutare se in questi anni se in questi anni sono già arrivati soldi e patrimoni di questo importantissimo clan nella provincia di Agrigento. Non è un’ipotesi peregrina chiedersi: dove sono questi soldi? Quali investimenti? Chi sono i loro prestanome? E’ una prima pista di lavoro su cui impegnare le migliori energie investigative. Non è da escludere anche un ritorno fisico di alcuni dei rampolli dei Rizzuto, in particolare di quella parte borghese e professionale, per sottrarsi alla morte e ritornare nella terra natia dei loro avi, in una sorta di porto sicuro dove rifugiarsi ed attendere la fine della terribile tempesta che li ha colpiti”. 

Rampolli che sono stati costretti a mettersi da parte, almeno temporaneamente, da una micidiale mattanza in terra canadese.

“In effetti la scia di sangue di questi ultimi anni  è impressionante. Il 28 dicembre del  2009 cade Nick Rizzuto junior, figlio di Vito Rizzuto, il vero capo della famiglia. Inizia così una seconda guerra di mafia, dopo quella degli anni ’70 dove i Rizzuto prevalsero sugli esponenti calabresi della loro stessa famiglia, legati ai Cotroni e ai Bonanno. Un anno dopo vittima di lupara bianca è Paolo Renda, cognato del padrino Nicola Rizzuto Senior, a seguire un mese dopo è il turno di Agostino Cuntrera, legato al famoso clan dei Caruana e Cuntrera. Il 10 dicembre del 2010 ad 86 anni proprio Nicola Rizzuto senior viene colpito con una mira straordinaria da un cecchino, mentre si trovava nella sua villa, seduto in cucina. Rimaneva in vita il boss dei boss dei Rizzuto, il figlio Vito, uscito dal carcere nell’ottobre 2012, pronto alla vendetta per l’uccisione del figlio e del padre e capace di rialzare dalla polvere il clan e così provare a reagire in questa cruenta guerra che li vedeva soccombenti. Arriva per lui un avversario inaspettato, la malattia, e viene stroncato per complicazioni polmonari il 23 dicembre 2013. Muoiono quasi tutti i sei i membri che da 10 anni gestivano la cupola di Montreal durante la permanenza di Vito in carcere. Sono rimasti in vita solo Francesco Arcadi e Francesco Del Balso perché nel frattempo arrestati. Altri esponenti cadono e anche i  nipoti dei Rizzuto sono a rischio. Vengono meno molte figure centrali di questa famiglia, Salvatore Montagna nel 2011, e più di recente nel 2016 vengono uccisi anche Rocco Sollecito il 27 maggio, ed Angelo D’Onofri, il 2 giugno. Rimangono in vita, forse perché perché in stato di arresto, il figlio di Sollecito, Stefano e un nipote dei Rizzuto, l’avvocato Leonardo”. 

Perché questa seconda guerra di mafia?

“Riflettiamo un attimo: il Canada è il paese che ha subito meno la crisi internazionale del 2008, anzi in questi anni si è espanso a ritmi di crescita elevati, in contro tendenza rispetto a tutti gli altri Paesi occidentali. Crescita dovuta sicuramente alla  capacità della sua classe dirigente, ma anche agli investimenti nel settore immobiliare e nelle grandi opere pubbliche. Adesso i capitali criminali sono nelle mani dell’ndrangheta, grazie alla loro capacità di stare ai vertici nel traffico mondiale della cocaina, con un ruolo di primo piano in Canada del gruppo di Siderno e con un radicamento continuo sino ad avere ben quattordici locali di ndrangheta. La cocaina, lo smisurato potere economico, i legami internazionali, le collusioni politiche,  la forza militare, sono adesso nelle mani della ndrangheta e spazzano via la Cosa nostra del potentissimo clan Rizzuto che ha dominato per ben quarant’anni la vita criminale, gli affari e le collusioni in Canada. Una sorta di vendetta che restituisce i colpi subiti negli anni ’70 durante la prima guerra di mafia, vinta proprio dal clan Rizzuto ed iniziata con la faida di San Valentino nel 1976. Il primo ad essere colpito allora fu Pietro Sciara, braccio destro di Paul Violi, calabrese e anche lui come i Rizzuto, legato al clan Newyorkese dei Bonanno. In questa sanguinosa prima guerra di mafia furono colpiti il boss Francesco Violi e poi nel gennaio 1978 il capo della famiglia Paul Violi. L’anno dopo l’ultimo colpo lo subì il terzo ed ultimo dei fratelli Violi, Rocco. Anche allora il clan Rizzuto controllava il traffico di droga grazie ai Caruana e Cuntrera, loro fedeli alleati. La guerra si aprì per il controllo delle grandi opere previste per le Olimpiadi di Montreal del 1978. I Rizzuto vinsero, presero in mano la costruzione del villaggio olimpico e delle infrastrutture collegate e si arricchirono a dismisura. Nel 2005 erano pronti ad investire addirittura 5 miliardi di euro nella costruzione del Ponte di Messina, attraverso un loro uomo di fiducia, Giuseppe Zappia, bloccato appena in tempo dalla Dia di Roma. In conclusione, i Rizzuto perdono, ma hanno ancora enormi ricchezze, un ritorno nella provincia di Agrigento non è da escludere. E’ allora il momento di far scattare l’antimafia “del giorno prima”, prevenendo le loro mosse e colpendoli per tempo”. 

Ci descriva l’altra peculiarità.

“L’altra caratteristica di Cosa nostra è stata la sua colleganza – alleanza con cosa nostra di Palermo. Una vicenda emblematica è quella dei primi anni del 2000, quando capo provinciale di Cosa nostra fu nominato il boss Maurizio Di Gati per volere di Antonino Giuffrè, in quel momento ai vertici di Cosa nostra regionale e  incaricato da Provenzano di seguire tutta la rete organizzativa regionale. Un ruolo così importante da far scattare in Giuffrè l’idea di scalare i vertici di Cosa nostra, anche a discapito di Provenzano stesso. Dopo la cattura di Giuffrè, cadde in disgrazia lo stesso Di Gati e alla guida di Cosa nostra provinciale di Agrigento si impose il protetto di Provenzano, Giuseppe Falsone, guarda caso catturato a Marsiglia, una delle principali piazze di droga presenti in Europa. Dopo Falsone prende in mano le redini l’uomo chiave di Cosa nostra della provincia di Agrigento, su cui vale la pena riflettere molto, Leo Sutera, capo provinciale e legato al latitante più ricercato di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Un’ipotesi di lavoro che va presa in seria considerazione: il boss Matteo Messina Denaro è risaputo che si tiene lontano da Palermo, in apparenza giocando un ruolo defilato dalla capitale di Cosa nostra, quasi estraneo alla ricerca di una leadership regionale. Ma è proprio così? Siamo certi che questo sia il suo vero gioco? Questa scelta potrebbe essere messa in discussione”. 

Perché?

“I fatti ci dicono che Matteo Messina Denaro non disdegnava avere rapporti con Leo Sutera e altri boss di Cosa nostra della provincia di Agrigento. Dopo l’operazione Cupola del 2002, stranamente Leo Sutera viene autorizzato dalla magistratura di sorveglianza a curarsi per un problema ortopedico, in un centro di fisioterapia, a Castelvetrano, potremmo dire proprio a casa di Matteo Messina Denaro. I legami pertanto si sono potuti saldare bene e non è escluso pertanto che Matteo Messina Denaro punti con una strategia sottile, ad una leadership regionale, facendo sua innanzitutto proprio la provincia di Agrigento, per poi puntare su quella di Caltanissetta ed infine mettere di fronte al fatto compiuto Cosa nostra di Palermo, che a quel punto ne dovrebbe prendere solo atto. Gli affari di Matteo Messina Denaro in provincia di Agrigento, sono ben noti alle forze di polizia e consacrate in indagini e processi. Anche su questa via bisogna accendere di più i riflettori per impedire che questo progetto si possa consolidare. Inoltre, bisogna comprendere quali affari e quali alleanze politiche Matteo Messina Denaro può saldare con Cosa nostra agrigentina per convincerli a spostare la storica alleanza da Palermo verso Trapani. Anche questo è un terreno interessante su cui lavorare. Così come bisogna indagare sulla massoneria.  Per comprendere se questa sottile strategia di Matteo Messina Denaro può avere successo o meno bisogna riflettere su un’altra variabile, forse altrettanto decisiva. Si tratta dei boss che hanno scontato la loro pena e sono tornati ad agire sul territorio. Sono ben quindici i boss ritornati in libertà, pronti a rilanciare Cosa nostra. Scorriamo i loro nomi per comprenderne la portata criminale: Leo Sutera di Sambuca di Sicilia, Giuseppe Capizzi di Ribera, Ignazio Massimino di Agrigento, Giuseppe Sicilia di Favara, Ignazio Sicilia di Favara, Francesco Fragapane di Santa Elisabetta, Gerlando Morreale di Favara, Stefano Morreale di Favara, Carmelo Marotta di Ribera, Cesare Calogero Lombardozzi di Agrigento, Salvatore Di Gangi di Sciacca, Nicola Ribisi di Palma di Montechiaro, Roberto Travali di  Agrigento, Eduardo Cino di Racalmuto, Salvatore Romeo di Porto Empedocle”.