Agrigento, Teatro Pirandello: siamo tutti Gengè Moscarda, un esempio di vita che sconfigge la forma

Ho la netta impressione che siamo costretti ad aggiornarci.
Troppo facile dirsi berlinesi al cospetto del muro di Berlino come fece Kennedy e fin troppo facile dirsi “je suis Charlie Hebdo”.
Oggi il nostro “essere” è Vitangelo Moscarda di “Uno nessuno e centomila, il romanzo pirandelliano che al suo uscire in volume nessuno prese sul serio e, ci dicono le cronache, dovette aspettare trent’anni per il suo doveroso riconoscimento.
Oggi invece, il Vitangelo portato sulla scena del Teatro Pirandello da Enrico Lo Verso, ha riscosso immediati applausi e consensi, come altrove è avvenuto.
Merito del batti e ribatti (centocinquantennale) di Pirandello sulla scena?
Probabilmente si, visto che lo stesso scrittore diceva ai familiari “Vado spesso in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana caduta tanto in basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa .
Allusione alle nostre stagioni teatrali è puramente casuale. Ma non proprio casuale è la definizione che lo stesso Pirandello diede del suo romanzo: “più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”.

Enrico Lo Verso
Gengè Lo Verso
Il teatro in attesa di Lo Verso
Il teatro in attesa di Lo Verso
Lo Verso tra gli aficionados
Vitangelo moscarda Lo Verso

E allora perché “piace” (per usare un termine sbrigativo alla facebook) questo Vitangelo Moscarda di “Uno nessuno centomila” nella riduzione che ne ha fatto la regista Alessandra Pizzi?
Certo sono molti i segnali che provengono anche da lavori teatrali meno importanti e cioè che ormai siamo di fronte ad una vera fabbrica dell’interpretazione teatrale. Gli spettacoli si fondano sempre più sulla figura e la competenza tecnica dei protagonisti piuttosto che sulla regia o sul testo, anche se qui il testo, alla fine, si fa assaporare per le sue giovanili ventate di echi buddisti, dove l’“èlan vital” bergsoniano asseconda l’innato vitalismo pirandelliano che sorregge l’azione di Vitangelo nel riconquistare la Vita per sconfiggere la Forma, dichiarando: ” La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo”.
E chissà, se sotto questo aspetto, la regista e riduttrice del testo, ci ripensi e allarghi la scena finale a Dida, la moglie “scassacazzi” di Vitangelo senza la quale (“Ma si, caro, il naso ti pende verso destra”) non avremmo avuto la rivoluzione personale di “Gengè” Moscarda e all’amica del cuore Anna Rosa che seduce prima il protagonista e poi gli spara da perfetta dark lady.
Perfettamente allusiva la scenografia e il costume del banchiere usuraio Mostarda che fin dall’inizio ci appare incapsulato in una bianca camicia di forza senza legacci, quasi un seguace di “al Baghdadi” guerriero-kamikaze della” Forma” che poi sconfiggerà ad un prezzo altissimo, donando se stesso e i suoi beni come fece Francesco figlio di Pietro Bernardone di Assisi. Incredibilmente felice Enrico Lo Verso che prima assapora gli applausi con ripetuti fuori scena e poi non pago fa chiudere il sipario e si offre “in pasto” agli spettatori che lo applaudono e circondano un attore coraggioso che per oltre sessanta minuti si è incaricato di un monologo spossante assumendosi in toto la responsabilità artistica della vita teatrale di un testo.
Non si tratta di un personaggio in cerca d’autore ma di un attore che destina se stesso a farsi personaggio in quella commedia a oltranza che è la vita per chi cerca di “essere” nel rappresentare. Un esempio di “trasformismo vitale” che dovrebbe pur dire qualcosa ai trasformisti della politica.

Loading…