Glielo aveva detto l’oracolo che sarebbe tornato a casa dopo vent’anni di peregrinazioni e in miseria.
E lui, Ulisse, no: cocciuto e consapevole eroe del doppio pensiero, parte, sicuro che un giorno avrebbe avuto l’onore della letteratura, del cinema e del teatro, di Joyce e di Massimo Manfredi che addirittura ne “L’oracolo” non lo fa morire ma ce lo fa trovare incarnato in un ufficiale della Marina militare greca. Per giungere alla piccola apoteosi che gli dedica Sebastiano Lo Monaco, anch’egli una sorta di Odisseo teatrale che ancora una volta si illude, accettando la direzione artistica di un teatro nostrano, di aver trovato la sua “isola“ che lui vorrebbe bella secondo il noto testo teatrale di Pietro Grasso e che, però, ci raccontano le cronache, è sempre più puttanissima secondo Buttafuoco; di merda, secondo Vecchioni.
Eppure glielo avevano detto anche a Peter Pan: “Seconda stella a destra / questo è il cammino / e poi dritto / fino al mattino. / Non ti puoi sbagliare perché / quella è l’isola che non c’è”.
Cantastorie Bennato a parte, inutile giocarci sopra con le utopie, le metafore e i festival street-food. L’isola non c’è, non c’è ancora e si prova uno sprazzo di emozione allorchè l’Ulisse di Manfredi-Lo Monaco si chiude con l’immagine della famiglia dell’eroe acheo ricomposta nell’isola ritrovata.
E forse, strizzando ancora il canovaccio, ci è sembrata più significativa, chissà forse beneaugurante, l’uscita finale di un Lo Monaco che scende in platea a stringere mani, a mimare abbracci e baci, a distribuire auguri di buone feste per poi ritornare sul palcoscenico improvvisando coi suoi attori un sabba con le sonorità balcaniche “matrimonio-funerale” alla Goran Bregovich.
Indovinata la scelta dell’orchestra “Sax in progress” a mixare le musiche di Arcidiacono e Summaria con quelle balcaniche; azzardatissima la regia di Alessio Pizzech, un azzardo che sicuramente ha voluto correre con Sebastiano Lo Monaco che per circa 90 minuti regge la scena come un invasato.
Per quel che si è visto e sentito, ai giovani è piaciuta questa trasposizione che ne ha fatto Francesco Niccolini, di sicuro a Sebastiano Lo Monaco, anche se per lui come interprete la rappresentazione potrebbe costituire un “nostos”, un ritorno parecchio doloroso e impegnativo in un’isola che nei suoi esordi teatrali era dominata prima dai Randone (di cui è l’accreditato erede) e poi da Turi Ferro.
Ne sappiamo qualcosa, lui ed io, quando nel 1992, in prima mondiale, portò ad Agrigento “Il berretto a sonagli” per la regia di Mauro Bolognini e lo tenni a battesimo con una recensione sul quotidiano “La Sicilia”.
Recensione ridottissima per via di altri Proci che allora dominavano la scena.
E altri Proci dovrà affrontare Ulisse Lo Monaco con la direzione artistica del “Teatro Pirandello”, probabilmente anche lo stesso entourage della Fondazione Pirandello presieduta dal sindaco Firetto che da tempo non riesce ad avere una visione appropriata di quanto Agrigento possa essere cambiata nei suoi “sogni e bisogni”, diciamo teatrali.
Vorremmo inoltrarci in questo discorso perché Lo Monaco in Accademia ha avuto docenti come Ruggero Jacobbi e Andrea Camilleri e non vorremmo mettere il dito nella piaga quando gli ricordiamo certi interrogativi sul teatro di Jacobbi: ”In questi anni tutte le diverse prospettive della transizione, di tale inquietudine, hanno preso un risalto lucidissimo e l’angoscia si sparge sia sul presente del teatro che sul suo stesso futuro. Le componenti sociali della crisi sono ormai identiche a quelle individuali….“.
Più oltre Jacobbi dice chiaramente “Beckett non aspetta Godot”…. ci si avvinghia nella polvere, si sta immoti nel fango, invasi dalla muffa dell’assenza, calcinati e impolverati dall’ultimo crollo, con la sabbia nei denti, la paglia nelle orecchie, eppure ci siamo, osiamo persino indossare la marsina del “vecchio stile” in mezzo al deserto divorante e dire che i nostri sono, chissà come, giorni felici”.
La morte di Licio Gelli e l’uscita da Rebibbia di Totò Cuffaro ci hanno riconfermato quanto questi giorni sono stati o potranno essere “felici”.
Le foto sono del maestro Diego Romeo