Cattedrale Agrigento, card. Montenegro: “Una mamma ferita e con le rughe che non si è abbattuta” (ft)

Dopo otto anni la Cattedrale di Agrigento riapre le sue porte ai fedeli ma anche ai turisti che ultimamente dopo aver raggiunto la parte più alta di Agrigento avevano trovato chiuso.


“La cattedrale era ed è ancora una mamma malata. Riaverla oggi significa almeno che è uscita in maniera definitiva dal coma”.

E’ con queste parole che l’arcivescovo di Agrigento, il cardinale Francesco Montenegro, ha annunciato questa sera alla città e alla comunità dei fedeli la riapertura della cattedrale di San Gerlando.

Il duomo di Agrigento ha riaperto le porte ai fedeli dopo 8 lunghissimi anni di attesa e polemiche. La cattedrale è stata messa in sicurezza, con 17 catene d’acciaio, perchè rischiava di scivolare a valle a causa del dissesto idrogeologico del colle sul quale sorge.

“In questi anni, la speranza, talvolta, sembrava sbiadirsi e addirittura spegnersi a causa di atteggiamenti non sempre interpretabili, delle molte deludenti e insincere parole e delle tante vuote e finte promesse”, ha detto don Franco, come ama farsi chiamare l’arcivescovo di Agrigento. Davanti al cardinale Montenegro c’erano tanti politici, a partire dal sindaco di Agrigento Lillo Firetto, l’assessore regionale alle Infrastrutture Salvatore Cordaro e il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè insieme all’on. Riccardo Gallo.

“I lavori non sono completati, si deve ultimare la messa in sicurezza dell’edificio e poi dovrebbe iniziare il rinsaldamento della collina e infine ci vorrà il restauro finale dell’edificio – ha spiegato l’arcivescovo – Quel che conta però è che, dopo tanti lunghi anni, siamo oggi qui, per pregare e ritrovarci come chiesa santa di Dio”.

Anche il parroco della Cattedrale, padre Giuseppe Pontillo, ha rimarcato l’urgenza e la necessità di affrontare il tema del consolidamento del colle “superando tecnicismi burocratici e agendo con celerià'”.

Pontillo ha evidenziato come, in questi anni, si siano moltiplicati i ritardi, fra cui quello “della politica a dare risposte ai bisogni del nostro popolo e alla cura del bene e beni comuni“.

Questo il testo dell’omelia di don Franco:

Un saluto cordiale e carico di gioia assieme al grazie per la presenza va a tutti voi fedeli della Chiesa agrigentina, accompagnati dai vostri presbiteri e diaconi- finalmente ritorniamo nella nostra Cattedrale -, grazie ai confratelli Vescovi che ci fanno sentire la vicinanza, anzi la comunione, delle altre chiese, e alle autorità tutte, civili e militari, regionali, provinciali e cittadine che, con la loro presenza, arricchiscono questa assemblea.

«La gloria del Signore riempiva il tempio» (Ez 43, 5). Mi piace iniziare con le parole del profeta Ezechiele e porle come cornice a questa solenne celebrazione di ringraziamento e di lode al Signore per la riapertura della chiesa Cattedrale. Rientriamo finalmente nel nostro tempio, in questa no-stra casa, prezioso per noi perché da qui sono passati nel corso dei secoli tanta preghiera, tanto magistero e tanta santità.

La nostra Cattedrale, purtroppo, resta ancora una mamma malata, ci augu-riamo che, riaverla significa che almeno sia uscita in maniera definitiva dal coma. In questi anni siamo stati sostenuti dalla speranza, anche se, devo confessarlo, a tratti, sembrava sbiadirsi e addirittura spegnersi a motivo di atteggiamenti non sempre interpretabili, delle molte deludenti e insincere parole e delle tante vuote e finte promesse. I lavori non sono completati, c’è ancora tanto da fare. Si deve completare la messa in sicurezza dell’edificio, poi dovrebbe iniziare il rinsaldamento della collina e infine ci vorrà il restauro finale dell’ edificio. Quel che conta, però, è che, dopo tanti lunghi anni, siamo oggi qui, per pregare e ritrovarci come chiesa santa di Dio.

È stato un momento fortemente desiderato, non tanto perché c’era l’urgenza di riaprire una chiesa, ma perché volevamo questa chiesa, la no-stra cattedrale.

La fede si sostiene ed è ricca di segni. Uno di questi è la Cattedrale che simboleggia l’unità, nel nostro caso, della Chiesa Agrigentina. Rientrarvi, pregare e celebrare l’Eucaristia, significa risentirci concretamente dentro la storia cristiana della nostra terra, storia santificata dalla fede dei credenti, dei santi e dal sangue dei martiri che ci hanno preceduto. È importante  questo tempio per riandare alle radici della nostra fede e della nostra storia. Qui siamo identificati per la nostra fede, qui si comprendono meglio e di-ventano nostre le parole di Pietro: ”Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio viven-te”.

Questo tempio ricorda e ripropone la storia religiosa, ma anche quella civile del nostro territorio e del nostro popolo. Potreste dirmi: ma questo non vale per tutte le chiese? Sì, però le altre chiese della diocesi sono la continuità di questa chiesa; esse non ci sarebbero se non fossero in comunione con que-sta. E questa Chiesa Madre, a sua volta, è strettamente legata alla Cattedra di Pietro, di cui oggi la Chiesa fa memoria. Questa coincidenza è stato il motivo per cui abbiamo scelto questa giornata per riaprila.

Sentiamo perciò l’orgoglio e la gioia di ritrovarci nella nostra Cattedrale: sentiamoci fieri, riconoscenti e gioiosi di essere tutti noi protagonisti di una lunga storia di fede; orgogliosi e consapevoli della nostra identità, delle nostre radici e del fatto che dalla Provvidenza ci viene affidata la storia odierna perché continui nel tempo. Ci tocca consegnarla ai nostri ragazzi e ai nostri giovani – è una bella storia, ecclesiale e civile – perché camminino fiduciosi verso il futuro.

Guardiamola la nostra cattedrale, anche se ferita, e lasciamoci prendere dallo stesso stupore di Salomone: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra?».

Mi piacerebbe che oggi tutta la città il territorio agrigentino si sentano in festa. Non si riapre solamente un’interessante e antica opera architettonica; questo tempio è molto di più di un museo o di un contenitore di belle ope-re. Il card. Montini ebbe a dire: «Il segreto della cattedrale è che essa non è semplicemente un interessante monumento d’architettura, un venerabile edificio storico, un ampio museo di belle arti, né è un solenne salone di conferenze, o un auditorium di musica sacra. Essa è per noi una casa viva, un luogo privilegiato di abitazione divina. È l’aula di Cristo Maestro, è il Tempio di Cristo Sacerdote, è il luogo di Cristo Pastore». Sì, qui Cristo continua a ripetere da secoli: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». E noi gli abbiamo risposto con le parole del Salmo: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla».

Questo antico edificio, posto in mezzo alle nostre case, ne è il cuore o, poi-ché svetta in cima al colle, è come la vedetta che, mentre vigila e protegge chi abita questa terra, invita a guardare il cielo perché possiamo desiderare sempre ciò che vale ed è grande in modo da abitarla con stile umano e fa-miliare. Le nostre radici sono in cielo. Non sono le case e i palazzi a rendere vivibile una città ma le persone e le relazioni che loro intessono. Qui, noi credenti viviamo momenti particolari di preghiera, di comunione e di amicizia che assicurano una vita sociale più solidale e più pacifica. I valori della vita cristiana, anche e soprattutto in tempi non facili come i correnti, restano attuali e decisivi; da credenti che viviamo in una città non possiamo non avvertire la responsabilità di aiutare la comunità civile a sentire sempre il bisogno dell’unità e della concordia. Giorgio La Pira proponeva di “rigenerare in Cristo la società civile; riparare, nella grazia, l’ordine umano collettivo; rifare le cattedrali e le chiese centro della città; ridare al culto collettivo della Chiesa il posto che gli spetta». È un’utopia che può diventare realtà se tutte le nostre comunità ecclesiali s’ impegnano non solo nella ricerca della Gerusalemme celeste ma anche nell’edificazione della città degli uomini “attorno all’antica fontana della grazia e della verità” (come diceva Giovanni XXIII), che è la Chiesa.

Da questa cattedra Cristo, l’unico vero maestro, continua a insegnare, a ri-velarci il Padre, ad annunziare il Regno di Dio, a diffondere la legge rivo-luzionaria della carità. Il pensiero grato va in questo momento a tutti i Ve-scovi che hanno rappresentato nella Chiesa agrigentina il «Principe dei pa-stori» – come lo chiama Pietro -, sempre presente tra noi, sempre identico a sé, ieri e oggi e nei secoli (cfr. Eb 13,8).

Questo maestoso tempio materiale ci rimanda all’altro tempio, più prezioso, quello spirituale, cementato della carità, fatto di “pietre vive per la co-struzione di un edificio spirituale” (1 Pt 2,5). – «Voi siete il tempio del Dio vivente» (2 Cor 6,6) – questo significa vivere in comunione di convinzioni e di intenti per superare ogni frammentazione e desiderare di camminare insieme. La comunione non è solo il frutto della buona volontà o delle stra-tegie pastorali, ma è obbedienza dovuta al Signore. Ignazio di Antiochia definisce i cristiani: «pietre del tempio, preparate in anticipo per l’edificio di Dio Padre, sollevate in alto dalla macchina di Gesù Cristo, che è la cro-ce, usando per corda lo Spirito Santo» (Ef 9,1). È Cristo la pietra angolare del tempio spirituale, se fondati e costruiti saldamente su di Lui si genera e alimenta la comunione tra noi cristiani. Non dimentichiamo le parole dell’apostolo: «voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio » (1 Pt 2,10).

La comunione ecclesiale è dono, è il frutto dell’amore di Dio che non ci fa perdere la speranza e la fiducia nonostante le diversità e le divisioni. La comunione, però, dipende anche da noi. Dice Paolo: «Se c’è qualche con-solazione in Cristo, … se ci sono sentimenti di amore e di compassione … Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,1.5).

Che il Signore faccia di noi «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32). Ci doni di vivere una comunione più convinta e più operosa nella collabora-zione e nella corresponsabilità. Non è facile, come non lo è costruire o re-staurare una chiesa, c’è sempre dell’altro da fare. L’importante è provarci.

Senza dimenticare infine che il frutto della comunione è la missione. Con-tinuiamo a costruire la nostra Chiesa, lasciamoci coinvolgere dal suo di-namismo missionario, obbedendo al mandato: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Ogni pietra, in questo edificio, non importa se piccola o grande, se visibile o no, ha la sua impor-tanza e un suo ruolo; nella Chiesa, fatta di pietre vive, tutti, ciascuno se-condo la propria vocazione, siamo chiamati a essere annunciatori, testimoni, missionari.

Questo tempio, nonostante i lavori continuino, si presenta a noi con un vol-to rinnovato. L’importante è che questo restauro sia accompagnato da quel-lo delle nostre anime e da una sincera e permanente conversione.

Approfitto per dire il mio grazie a quanti hanno partecipato in varia maniera alla riapertura, credendoci, finanziando, progettando, seguendo ed eseguendo manualmente i lavori. Non faccio l’elenco, scusatemi, perché sono certo che dimenticherei qualcuno.

Chiudo con le parole di Paolo VI: «A Cristo ogni Cattedrale appartiene. Questa Chiesa è sua. Per Lui qui è innalzata una cattedra, sulla quale il suo Apostolo, in sua vece, parlerà; per Lui un trono, sul quale chi tiene il suo posto, siederà; per Lui un altare, dal quale chi lo rivive farà salire al Padre il suo stesso sacrificio; per Lui qui è riunito il popolo col suo Vescovo, e a Lui innalza il suo inno di gloria e la sua gemente preghiera; e da Lui, questo tempio acquista la sua misteriosa maestà».

Affidiamo la Chiesa agrigentina a Maria Assunta e a S. Giacomo, ai quali questo tempio è dedicato, ai nostri santi Libertino, Gerlando e Calogero, e chiediamo la loro intercessione per essa, per tutta questa terra e per questa nostra città.

Foto di Diego Romeo