Dall’ergastolo per l’omicidio Livatino ai permessi premio, così è stata riorganizzata la Stidda
Possono due persone condannate all’ergastolo, anche per omicidi di uomini dello Stato come il giudice Rosario Livatino, tornare a muovere le fila della Stidda? Per il tribunale di Agrigento, si
L’operazione Xidy, oltre a fare luce sulle dinamiche all’interno del mandamento mafioso di Canicattì, ha permesso di fotografare il ritorno prorompente della Stidda in provincia di Agrigento. Una organizzazione che, tra la fine degli anni ottanta e gli inizi dei novanta, si è resa protagonista di una guerra con Cosa nostra che ha seminato panico e morte in tutto il territorio anche con omicidi “eccellenti”. Tra questi vi è certamente quello del giudice Rosario Livatino, primo magistrato beato della Chiesa cattolica.
A riorganizzare il gruppo degli stiddari, secondo quanto emerso dal processo ordinario che si è concluso con sette condanne, sarebbero stati “due pezzi da novanta”: Antonio Gallea e Santo Gioacchino Rinallo. Possono due persone condannate all’ergastolo, anche per omicidi di uomini dello Stato come il giudice Rosario Livatino, tornare a muovere le fila della Stidda? Per il tribunale di Agrigento, si. Gallea è stato condannato a 22 anni mentre Rinallo a 28 anni di reclusione. I giudici hanno depositato le motivazioni del processo Xidy e, in particolare, hanno tratteggiato le figure dei due ergastolani muovendo anche delle perplessità sulle licenze premio di cui hanno potuto godere che – per il tribunale – sono stati “strumenti funzionali alla riattivazione dei rapporti con esponenti di spicco della nuova dirigenza mafiosa”.
DALL’ERGASTOLO AI PERMESSI PREMIO
Gallea e Rinallo, ormai da tempo, condividono un simile cammino giudiziario così come la storia criminale. Antonino Gallea è stato condannato in via definitiva all’ergastolo per associazione mafiosa e per essere stato uno dei mandanti dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 da un commando di stiddari. Sconta ininterrottamente la pena in carcere fino al 2015 quando il Tribunale di Sorveglianza di Napoli gli concede la semilibertà e dal 2017 anche la licenza premio che gli permette di tornare a Canicattì. Permessi accordati in ragione della dedizione ad attività di volontariato ed al proseguimento di studi universitari. Una vicenda simile a quella di Santo Gioacchino Rinallo. Rinallo è noto per essere stato uno dei killer più spietati dalle Stidda ed è stato condannato all’ergastolo per il duplice omicidio dei fratelli Ribisi, esponenti di primo piano di Cosa nostra di Palma di Montechiaro. Sconta la pena ininterrottamente fino al 2017 quando il tribunale di Sorveglianza di Sassari gli concede il beneficio della semilibertà ritenendo “maturi i tempi per il reinserimento sociale” anche grazie alle sue attività: cuoco, volontario e addirittura cantante in un coro gospel.
IL RITORNO DELLA STIDDA
Scrivono i giudici in sentenza: “Era emersa “l’operatività sul territorio di un’articolazione stiddara molto, molto agguerrita”, ricompattatasi dietro le figure di Gallea Antonio e Santo Rinallo; in quel contesto, la rinata “stidda” si era contrapposta a Cosa nostra “per il controllo di alcune attività” ed in particolare della gestione delle citate “sensalie”.Sulla base della dettagliata ricostruzione effettuata dal Colonello Arcidiacono nel corso del suo approfondito esame testimoniale, è emerso che la “stidda” affondava le proprie radici alla fine degli anni Ottanta e si era radicata, principalmente, nel territori delle province di Agrigento e Caltanissetta e, in misura minore, nella zona del trapanese; la sua formazione era stata determinata da dissidi interni sorti nell’ambito di “cosa nostra”, riconducibili alla disapprovazione per la leadership di Di Caro Giuseppe, capo della provincia di Agrigento, e di Ferro Antonio, referente della famiglia mafiosa di Canicattì. Tali frizioni, come già evidenziato in precedenza, erano sfociate in una vera e propria scissione, con la nascita della “stidda” quale entità separata dalla potente organizzazione madre “cosa nostra”242, ed in una lunga e sanguinosa guerra di potere che aveva segnato il contrasto tra le due fazioni, con scontri territoriali e lotte per il controllo delle risorse e degli affari illeciti.“
“LA NUOVA STIDDA: UNA STRUTTURA ORIZZONTALE”
Il tribunale prosegue: “Il “nuovo aggregato mafioso” si caratterizzava per una struttura simile a quella di “cosa nostra” ma “un po’ più orizzontale” rispetto a quella della sua rivale, con la quale intraprese una lunga e sanguinosa guerra di potere. Del conflitto che si era innescato nel 1990 si è già trattato nella parte che precede. Tra le vittime di quel periodo si annovera anche il giudice Rosario Livatino, il quale, per la sua intransigenza e severità nei confronti dei membri della criminalità organizzata, era divenuto una delle figure più invise agli stiddari a causa del suo impegno nella lotta contro la criminalità organizzata. Va detto, per quanto d’interesse nella presente trattazione, che l’ordine di uccidere il Magistrato era stato impartito da Gallea Antonio, il quale, sebbene all’epoca fosse detenuto presso il carcere di Agrigento, aveva mantenuto le redini dell’organizzazione ed era stato in grado di fare veicolare il messaggio all’esterno. Il Colonnello Arcidiacono ha riferito che nel corso delle indagini relative al mandamento mafioso di Canicattì, nel periodo considerato nel presente processo, oltre alla presenza di “cosa nostra”, era emerso che nel territorio operava un’altra organizzazione criminale di tipo mafioso, la c.d. “stidda”. In particolare, da alcune conversazioni oggetto di intercettazione intrattenute tra i membri di cosa nostra, tra cui quella del 14.9.2020 avvenuta all’interno dello studio di Porcello Angela tra gli esponenti mafiosi Buggea Giancarlo, Boncori Luigi e Lombardo Gregorio, oltre cha tra questi ultimi ed esponenti della stidda, di cui si darà meglio conto nel prosieguo, emergeva il reiterato riferimento alle fibrillazioni esistenti all’interno del mandamento; fibrillazioni causate da alcuni soggetti che agivano senza l’autorizzazione di cosa nostra. Dal prosieguo del dialogo si acquisiva, in termini netti e inequivocabili, la conferma dell’operatività nel territorio agrigentino di entrambe le storiche associazioni di stampo mafioso: la stidda e cosa nostra [..] La predetta organizzazione faceva capo a due ergastolani, Antonio Galleae Rinallo Santo, i quali, una volta ottenuta la semi-libertà, avevano ripreso in mano le redini della “stidda” continuando a gestire le attività criminali nel territorio.Tra i principali collaboratori di Gallea e Rinallo spiccava la figura di Chiazza Antonino, pregiudicato mafioso di Palma di Montechiaro il quale, trasferitosi a Canicattì, aveva consolidato il potere della “stidda” portando con sé il proprio gruppo. All’epoca dei fatti per cui si procede, per come è emerso dall’indagine e come meglio si dirà nel prosieguo della trattazione, nonostante la rivalità storica con “cosa nostra”, le due organizzazioni avevano siglato un accordo di pace, pur mantenendo una diffidenza reciproca; gli esponenti delle due fazioni avevano continuato a intrattenere rapporti personali mirati alla risoluzione di problematiche comuni e alla spartizione delle attività illecite nel territorio. In tale contesto emblematica risulta la figura di Chiazza Antonino che, all’epoca dei fatti per cui si procede, con l’aiuto di Gallea Antonio e Rinallo Santo, aveva cercato di infiltrarsi all’interno di “cosa nostra” sfruttando il legame con un esponente di spicco della citata organizzazione, ossia Buggea Giancarlo, il più volte citato uomo d’onore vicino a Falsone Giuseppe. Tale legame avrebbe dovuto insinuare dubbi sulla gestione di “cosa nostra” da parte di Di Caro Calogero, così da delegittimarne il potere e l’autorità. Più nel dettaglio, il cartello criminale, sorto dalla collaborazione delle due organizzazioni, si era inserito nel sistema delle mediazioni dei prodotti agricoli, in particolare uva, talvolta “sostituendosi direttamente ai mediatori” e altre volte controllando dei “mediatori di fiducia”, i quali erano stati costretti “a rimpinguare le casse delle due organizzazioni mafiose”. Sebbene fosse, dunque, nota la diaspora tra le due organizzazioni criminali, all’epoca dei fatti per cui si procede gli stiddari e alcuni esponenti di “cosa nostra”, in particolare Buggea Giancarlo, avevano trovato un accordo “per la gestione delle attività criminali sul territorio”. L’accordo riguardava principalmente la “spartizione degli introiti che provenivano dalle attività di mediazione per la compravendita di frutta e segnatamente di uva“ nella provincia di n disparte gli incontri, le riunioni e le conversazioni tra gli associati a “cosa nostra” programmati presso lo studio della Porcello, già oggetto di analisi in altra parte della presente trattazione, allo stesso modo gli inquirenti hanno riscontrato diverse riunioni, e captato i relativi colloqui, presso lo studio della Porcello, tra il Buggea, da una parte, ed esponenti della stidda, dall’altra, avvenuti anche in presenza dell’Avv. Porcello; sono state anche captate conversazioni intercorse tra il Buggea e la Porcello in occasione delle quali il primo metteva a conoscenza l’Avvocato del tenore delle conversazioni da lui intrattenute con gli stiddari, nonché intercettati numerosi incontri e conversazioni tra gli appartenenti alla stidda.“
ANTONIO GALLEA
Cosi i giudici su Antonio Gallea: “Figura centrale nell’ambito del presente procedimento è quella di Gallea Antonio, soggetto descritto dall’Autorità giudiziaria come “una delle espressioni direttive di maggiore spessore criminale” dell’organizzazione stiddara, in seno alla quale ha rivestito posizioni apicali di comando, nonché responsabile – quale mandante – di alcuni dei più efferati delitti perpetrati contro le istituzioni democratiche dello Stato italiano, tra i quali si annovera l’omicidio del Giudice Rosario Livatino, consumatosi il 21 settembre 1990. Gallea è stato condannato per associazione mafiosa (Sentenza della Corte di Assise di Agrigento nei confronti di Alletto Croce + altri), con ruolo direttivo e per numerosi omicidi, tra i quali appunto quello del Giudice Rosario Livatino (Sentenza Corte di Appello del 25 settembre 1999, irrevocabile, che ha confermato la sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta del 4.4.1998 di condanna del Gallea quale mandante dell’efferato delitto commesso a Favara). La sentenza n. 27/1997 emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo ha ritenuto dimostrata, in base al complesso degli elementi acquisiti al processo – anche all’esito del giudizio di primo grado conclusosi con la sentenza n. 2/1996 emessa dalla Corte di Assise di Agrigento – 1’appartenenza di Gallea Antonio all’associazione di tipo mafioso denominata stidda, precisando che, nell’ambito di essa, egli aveva certamente rappresentato “Una delle espressioni direttive di maggiore spessore criminale”. Richiamando i rapporti e le frequentazioni del Gallea con numerosi personaggi legati alla “stidda” di Canicattì (risultanti sia dalla documentazione fotografica sequestrata che dagli accertamenti eseguiti dai Carabinieri), elementi che già denotavano in maniera estremamente significativa il contesto in cui operava ed i vincoli che lo univano a detti soggetti – tra cui Rinallo Santo, Migliore Angelo, Migliore Massimiliano, Avarello Giovanni, Montana Giuseppe, Parla Salvatore – entrambe le Corti di Assise, quella di primo grado e quella di appello, osservavano che le plurime e convergenti chiamate di correo comprovavano il suo ruolo di capo “Nella fase della costituzione di un guppo avente struttura mafiosa ed il suo protagonismo nelle principali scelte strategiche del sodalizio”. In particolare, dalle dichiarazioni dei collaboratori Messina, Trubia, Calafato, Benvenuto Giuseppe Croce e Benvenuto Gioacchino veniva desunta la prova dell’esistenza di due periodi: il primo, anteriore al 1989, durante il quale il Gallea aveva fatto parte, con ruolo di vertice, di una banda di criminali dediti principalmente alle rapine ed al traffico di stupefacenti, ed il secondo, che iniziava dal 1989, quello maggiormente rilevante in questa sede, nel quale il gruppo anzidetto era entrato in contrasto con cosa nostra e, d’intesa con il sodalizio omologo degli emergenti palmesi, aveva scatenato l’attacco contro la stessa per il controllo del territorio e lo sfruttamento di tutte le attività, lecite ed illecite. È proprio in questo momento che risaltava con chiarezza – sia agli alleati, che ai nemici – il ruolo determinante assunto dal Gallea. Invero, Benvenuto Giuseppe Croce riferiva che nel 1989 era stato stretto l’accordo tra i palmesi ed i canicattinesi contro cosa nostra e puntualizzava che al comando di questi ultimi vi erano i fratelli Gallea, in particolare Gallea Antonio. Dette dichiarazioni risultavano suffragate dalle accuse di un altro collaboratore, Schembri, che confermava nell’imputato la qualità di capo della “stidda” canicattinese, contrapposta alla famiglia locale di cosa nostra, ma soprattutto dalle propalazioni di Calafato, il quale asseriva che, all’interno della Casa circondariale di Agrigento, dove si trovavano contemporaneamente detenuti, erano stati proprio lui ed il Gallea a concludere un patto di collaborazione con Grassonelli Salvatore, già alleato dei gelesi, ed all’esterno l’accordo era divenuto operativo a seguito di un incontro, appositamente provocato, tra Pullara Giuseppe, Gallea Bruno ed Avarello, il quale si era successivamente recato a Gela per informare i capi di quella cosca dell’avvenuta alleanza. Di fronte a queste specifiche e conformi dichiarazioni, che – unitamente a quelle del tutto concordanti rese da altri collaboranti, provenienti da zone territoriali completamente diverse (come Iannì Gaetano e Simon, Iaglietti Diego e Ingaglio Giuseppe) o addirittura dall’area di cosa nostra (come il Messina, il quale ricordava un particolare, e cioé che, dopo l’omicidio Gioia ed il tentato omicidio Di Caro, Madonia Giuseppe aveva ordinato di eliminare il Gallea, ritenendo che egli fosse responsabile di tali fatti) – dimostravano non solo l’appartenenza di quest’ultimo al sodalizio della stidda ma anche il ruolo di promotore e le funzioni decisionali e organizzative da lui svolte all’interno dell’associazione, ben poco valeva eccepire che il medesimo era stato detenuto senza soluzione di continuità dal 1990. In proposito veniva rilevato, da un lato, che uno dei primi gravi episodi delittuosi ricollegabili alla guerra di mafia tra la “stidda” e cosa nostra, vale a dire il duplice omicidio di Allegro Rosario e Anzalone Traspadano, nonchè il tentato omicidio di Giganti Pietro, ai quali il Gallea era stato accusato di aver preso parte personalmente, risaliva all’1.11.1989, e, dall’altra parte, che proprio in stato di detenzione, secondo le citate ed attendibili dichiarazioni del Calafato, l`imputato aveva concluso, unitamente a quest’ultimo, l’alleanza con il gruppo empedoclino dei Grassonelli, facendo in modo di renderla attiva all’esterno attraverso il fratello Bruno ed il nipote Avarello.
In particolare, a parte il ruolo deliberativo che, secondo Benvenuto Giuseppe Croce, Calafato, Riggio e Messina, il Gallea, pur essendo ristretto in carcere, avrebbe avuto negli omicidi di Corrado Amedeo e del giudice Livatino, di Di Caro Giuseppe e nel tentato omicidio di Di Caro Calogero, nonché negli omicidi Gioia ed Alaimo, si sottolineava, relativamente agli omicidi Allegro ed Anzalone ed al tentato omicidio Giganti, che dal racconto del Calafato (che si é autoaccusato dei delitti, confessando di esserne stato l’organizzatore ed il mandante) si traevano elementi certo comprovanti l’effettiva partecipazione del Gallea a detti reati, elementi che peraltro risultavano riscontrati sia dalle dichiarazioni del Benvenuto, il quale affermava di essere stato messo al corrente dei dettagli dell’azione direttamente dal Gallea, sia dalle indagini compiute dagli organi inquirenti, intorno ai quali avevano deposto i vertici investigativi dell’epoca. Le citate decisioni delle Corti di Assise hanno quindi affermato la colpevolezza del Gallea e ritenuto, altresì, sulla scorta delle prove raccolte, che egli fosse stato promotore ed a capo della consorteria mafiosa della stidda. Condannato all’ergastolo, Gallea è attualmente detenuto presso la Casa Circondariale di Napoli – Secondigliano; dal 6 febbraio 2015 è stato ammesso dall’Ufficio di Sorveglianza del Tribunale di Napoli a fruire del beneficio della misura alternativa della semilibertà. Dal 24 dicembre 2017 ha iniziato a fruire anche dei periodi di licenza premio, ad oggi per un periodo superiore a complessivi tre mesi, concessi sempre dall’Ufficio di Sorveglianza del Tribunale di Napoli. Diversi di questi periodi di licenza premio li ha trascorsi a Canicattì, dove è stato ospitato nell’abitazione della sorella Gallea Concetta (vedova dello stiddaro Avarello Michele, padre dell’ergastolano Giovanni inteso Gianmarco, anche quest’ultimo condannato in via definitiva per l’omicidio del Giudice Livatino) [..] Ciò che in questa sede appare necessario evidenziare, al fine di comprendere la caratura criminale del Gallea e la sua ancora attuale estrema pericolosità, è che questi era il “capo” del gruppo degli “stiddari” di Canicattì, “il giostraio”, “il responsabile per la stidda nel carcere di Agrigento” (Pag. 263 della citata sentenza di condanna). Proprio all’interno dell’istituto penitenziario, attraverso contatti con i familiari e, tramite gli agenti penitenziari, con altri detenuti, Gallea aveva dato l’ordine di uccidere il Giudice Livatino, omicidio poi concretamente eseguito dai “suoi uomini”. Egli è stato, dunque, il mandante per un interesse diretto e personale alla eliminazione del magistrato, accusato di essere particolarmente rigoroso nei confronti del gruppo “stiddaro”, e per “vendetta” rispetto alla condanna da lui subita, ritenuta eccessivamente severa, per porto di armi ed esplosivo. Ebbene, avuto riguardo al complessivo compendio probatorio a disposizione del Tribunale ed alle risultanze emerse dalle indagini che verrano nel prosieguo analizzate, deve rilevarsi come la prolungata detenzione in espiazione della pena inflittagli per tale efferato crimine e la concessione di benefici penitenziari, non abbia prodotto alcun effetto di resipiscenza nel Gallea. Al contrario, costui ha mostrato di strumentalizzare abilmente la disciplina premiale, prevista anche per i detenuti ergastolani, al fine di favorire un progressivo reinserimento nel contesto mafioso di origine e tentare di ricostruire – obiettivo effettivamente raggiunto – il proprio carisma criminale all’interno dell’organizzazione. In tale direzione, dopo avere scontato venticinque anni di reclusione, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli il 21 gennaio 2015 ammetteva Gallea Antonio al beneficio della semilibertà, sulla base di una valutazione prognostica favorevole circa la sua capacità di reintegrazione sociale, confermando, altresì, il giudizio di “non attualità” di collegamenti con la criminalità organizzata, che in precedenza aveva determinato la revoca del regime detentivo ex art. 41 bis. Come detto, a seguito di ciò, al Gallea erano state concesse numerose licenze premio da fruire anche nella provincia agrigentina, dove egli vi aveva fatto ritorno in via saltuaria a far data dal mese di dicembre del 2017. Tali occasioni hanno costituito, di fatto, strumenti funzionali alla riattivazione dei rapporti con esponenti di spicco della nuova dirigenza mafiosa, tra cui il noto Chiazza Antonino, dimostrazione del chiaro intento di riorganizzare e riattivare le originarie dinamiche criminali.”
SANTO RINALLO
In sentenza si legge: “Altra figura di primo piano nel panorama criminale della stidda è quella di Rinallo Santo. Numerose sentenze ormai passate in giudicato, anche prodotte in questo procedimento, hanno dimostrato i consolidati legami del Rinallo con numerosi soggetti appartenenti alla consorteria degli stiddari di Canicattì, tra cui, in primo luogo Gallea Antonio ed i suoi fratelli Bruno e Giovanni, ma anche l’Avarello, Parla Salvatore e Montanti Giuseppe. La partecipazione di Rinallo Santo alla stidda canicattinese è stata cristallizzata in numerosi precedenti giudiziari fondati anche su copiosa documentazione fotografica in cui si notava in particolare la presenza di Gallea Antonio, sulle indagini di P.G. che hanno direttamente constatato le frequentazioni costanti del Rinallo con i predetti soggetti, ma anche e soprattutto sulle dichiarazioni di vari collaboratori, tra i quali Benvenuto Giuseppe Croce e Calafato Giovanni, che hanno dichiarato di aver conosciuto il Rinallo tra il 1986 e il 1987 come appartenente ad un gruppo criminale di Canicattì dedito alla consumazione di rapine e lo hanno concordemente incolpato di essere un esponente della famiglia dei Gallea e degli Avarello. I predetti collaboratori hanno pure accusato il Rinallo di aver commesso, in concorso con Gallea Antonio e l’Avarello, tre eclatanti delitti di sangue che si iscrivono nella guerra di mafia scatenata dalla nuova organizzazione criminale contro le famiglie tradizionali di “cosa nostra” .È stata accertata anche la partecipazione del Rinallo al duplice omicidio di Allegro Rosario e Anzalone Traspadano ed al tentato omicidio di Giganti Pietro, commessi a Palma di Montechiaro l’1.11.1989. Benvenuto e Calafato hanno narrato con precisione la dinamica del fatto ed in particolare il Calafato ha confessato di essere stato il mandante e l’organizzatore ed ha raccontato che il Rinallo aveva dato il suo contributo all’esecuzione dei delitti quale autista del commando omicida in concorso con Avarello e Gallea. Rinallo è stato giudizialmente riconosciuto quale killer dell’organizzazione e, con sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 18.1.2000, di conferma della sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta del 26.6.1998 (definitiva), quale esecutore materiale dell’omicidio dei fratelli Rosario e Carmelo Ribisi, commesso in concorso con altri sodali tra cui il già citato Gallea Antonio, individuato quale mandante del delitto. Il delitto veniva letto come un momento centrale nell’attacco da parte dei gruppi emergenti di Canicattì e Palma di Montechiaro – tra loro alleati e facenti capo ai fratelli Gallea e ad Avarello Giovanni – agli esponenti di cosa nostra fino a quel momento considerati legati alla c.d. mafia vincente nel palermitano, con lo scopo di sostituirsi a questi ed entrare in posizione egemone nell’organizzazione ufficiale di cosa nostra. L’antefatto del duplice omicidio era stato il ferimento in un conflitto a fuoco di Rosario Ribisi, che aveva indotto quest’ultimo a ricoverarsi nell’ospedale di Caltanissetta il 29 settembre 1989. Dagli accertamenti di polizia risultava che il precedente 26 settembre era avvenuta una sparatoria in un bar di Camastra, vittime designate erano alcuni aderenti ad un clan stiddaro di Palma di Montechiaro. L’agguato era fallito e risultava che gli aggrediti avevano risposto al fuoco; si sospettava che fra gli assalitori vi fosse Rosario Ribisi, mosso dall’intento di vendicare l’uccisione del fratello Gioacchino il precedente 5 agosto 1989 a Marina di Palma. Dunque il duplice omicidio si inseriva in una sanguinosa guerra tra articolazioni mafiose rivali operanti nel territorio dell’agrigentino ed aveva costituito l’apice di un’escalation di violenza. Anche in questo caso, al fine di meglio delineare la figura del Rinallo e di comprendere il ruolo dallo stesso rivestito all’interno della stidda appare opportuno richiamare le risultanze istruttorie compendiate e le valutazioni rassegnate nelle pronunce sopra indicate. La Corte di Assise di Appello di Palermo riteneva dimostrata, sulla base del complesso degli elementi acquisiti al processo – anche all’esito del giudizio di primo grado conclusosi con la sentenza n. 2/1996 emessa dalla Corte di Assise di Agrigento – 1’appartenenza di Rinallo Santo al gruppo degli emergenti canicattinesi e, pertanto, affermatane la colpevolezza, lo condannava alla pena di anni sette di reclusione. Invero, i rapporti nient’affatto occasionali dell’imputato con soggetti legati alla “stidda” di Canicattì emergevano innanzitutto dalla copiosa documentazione fotografica, in cui primeggiava in maniera significativa la presenza di Gallea Antonio, e risultavano inoltre dagli accertamenti compiuti dai Carabinieri del Nucleo Operativo di Agrigento che avevano direttamente constatato le frequentazioni del Rinallo con il predetto Gallea e con i fratelli Bruno e Giovanni, ma anche con 1’Avarello, con Parla Salvatore, con Montanti Giuseppe ed altri. A questo primo elemento, dal peso certamente non trascurabile perché dimostrava l’esistenza di consolidati legami del Rinallo con altri coimputati, a cui veniva appunto fatto carico di appartenere alla consorteria degli “stiddari” di Canicattì, si saldavano le convergenti dichiarazioni di Benvenuto Giuseppe Croce e di Calafato Giovanni, i quali, dopo aver precisato di aver conosciuto il Rinallo intorno agli anni 1986/1987, come appartenente ad un gruppo criminale di quel paese, dedito alla consumazione di rapine, lo avevano concordemente incolpato di essere “un esponente della famiglia dei Gallea e Avarello” . Il riferimento riguardava inequivocabilmente il periodo successivo alla nascita ed al crescente sviluppo dell’associazione della “stidda”, considerato che ambedue i collaboranti, nel ribadire i rapporti del Rinallo con i predetti soggetti, lo accusavano di aver commesso – in concorso con l’Avarello, con Gallea Antonio o con entrambi – tre eclatanti fatti di sangue, che si iscrivono nella guerra di mafia scatenata dalla nuova organizzazione criminale contro le famiglie tradizionali di “cosa nostra”. In sostanza, il quadro probatorio complessivamente acquisito, da un lato, evidenziava l’esistenza di strettissimi vincoli dell’imputato con il Gallea, vale a dire con uno degli elementi di spicco dell’organizzazione mafiosa, vero promotore e vertice incontrastato di questa – risalendo ad epoca precedente al 1989, ma perduranti anche in periodo successivo alla nascita dell’associazione (che si colloca, appunto, interno alla fine di quell’anno) ed all’inizio della Guerra di mafia – e denotava, dall’altro lato, una trama di rapporti tra il Rinallo ed altri soggetti sicuramente affiliati al gruppo “stiddaro” di Canicattì (come il Montanti, l’Avarello e Parla Salvatore) o di centri diversi (come il Calafato), che, alla luce degli accertati e durevoli legami con il capo della consorteria e tenuto conto del carattere nient’affatto sporadico delle frequentazioni, non risultava adeguatamente giustificabile, se non, appunto, con l’organico inserimento dell’imputato nel sodalizio criminoso. Proprio in questo contesto, che accreditava ampiamente le dichiarazioni dei collaboranti, assumevano valore le accuse formulate contro il Rinallo in ordine alla sua partecipazione al duplice omicidio di Allegro Rosario e Anzalone Traspadano ed al tentato omicidio di Giganti Pietro, commessi a Palma di Montechiaro il primo novembre 1989. Infatti, dal racconto del Benvenuto, ma soprattutto del Calafato il quale descriveva dettagliatamente la dinamica del fatto confessando di essere stato l’organizzatore ed il mandante, emergevano dati insuperabili – tanto per i vicendevoli riscontri che le narrazioni offrivano, quanto per gli specifici ed incontestati elementi di verifica desunti dalle indagini compiute dagli organi investigativi – che comprovavano il contributo apportato dal Rinallo all’esecuzione dei delitti, quale autista del commando omicida, in concorso con il Gallea e l’Avarello. Del resto, in forza delle precise e circostanziate dichiarazioni dei collaboranti e dei molteplici riscontri oggettivi acquisiti, risultava incontestabile che a sparare i colpi mortali e ad inseguire il Giganti (nel vano tentativo di uccidere proprio colui che rappresentava la vittima designata dell’attentato, unitamente all’Allegro) fossero stati il Gallea e l’Avarello. Di conseguenza, è stata cristallizzata l’affiliazione del medesimo al gruppo degli emergenti di Canicattì, essendo appena il caso di ribadire che soltanto la piena ed incondizionata adesione a quell’organizzazione é in grado di spiegare i rapporti stabili e duraturi tra l’imputato e due personaggi di primissimo piano della confederazione “stiddara”, come il Gallea e l’Avarello, veri e propri protagonisti dell’attacco sferrato contro “cosa nostra” e di tutte le vicende ad esso connesse, ed esecutori essi stessi di numerosi ed efferati delitti di mafia. Condannato all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidio plurimo e ulteriori reati di rilevante gravità, Rinallo veniva ammesso il 6 ottobre 2017 al beneficio del regime della semilibertà dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari e autorizzato ad uscire dall’istituto penitenziario e a svolgere attività lavorativa alle dipendenze di Salerno Jessica (compagna di suo figlio Rinallo Francesco), titolare dell’esercizio commerciale bar “Dolce Vita”, sito a Canicattì, e ad uscire dall’istituto detentivo (di San Cataldo) dal lunedì al sabato alle ore 07:00 e a rientrare alle ore 21:00 mentre nei giorni di domenica e festivi dalle ore 08:00 sino alle 21:00. Il riconoscimento del beneficio si fondava su una dimostrata maturità del detenuto al reinserimento sociale, avendo lo stesso partecipato ad attività rieducative e di volontariato. Deve osservarsi che nell’ammettere ai benefici penitenziari il Rinallo, il Tribunale prendeva le mosse dall’accertamento dell’impossibilità della collaborazione, sancito da precedente provvedimento del 10 febbraio 2015 del Tribunale de L’Aquila. Richiamando le medesime valutazioni esposte con riferimento al Gallea, deve osservarsi che tale prospettiva di reinserimento è stata indubbiamente smentita dai fatti accertati nel presente processo sulla base dell’ampio compendio probatorio, in particolare intercettazioni di conversazioni, che verrà di seguito analizzato.”
ANTONINO CHIAZZA
Infine, i giudici descrivono la figura di Antonino Chiazza: “In seno al presente procedimento, personalità paradigmatica sul piano criminale è poi quella di Chiazza Antonino, soggetto già condannato, con sentenza della Corte di Appello di Palermo dell’11 febbraio 2014, irrevocabile (sentenza c.d. Adeph in atti), per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. per aver preso parte, sino all’anno 2002, all’associazione di tipo mafioso nota come “paracco dei Pace – Cucciuvì”, sodalizio criminale di matrice stiddara capeggiato da Pace Domenico e Pace Rosario. Espiata la pena, Chiazza Antonino veniva rimesso in libertà e sottoposto alla misura della sorveglianza speciale. Dalle complessive indagini svolte nel presente procedimento, è emerso che Chiazza inizialmente agiva con l’autorizzazione di cosa nostra, poi ne prendeva le distanze per schierarsi con il gruppo stiddaro degli ergastolani in licenza premio (Gallea e Rinallo) contrapponendosi a cosa nostra, giungendo con essa ad accordi di non belligeranza. Come si avrà modo di illustrare, il Chiazza disattendendo le direttive impartitegli dai referenti palmesi di cosa nostra, realizzava sul territorio di competenza del mandamento di Canicattì continue incursioni con azioni di disturbo al fine di affermare il personale controllo sulle operazioni di mediazione per la compravendita di prodotti ortofrutticoli. Di ciò si aveva costante conoscenza sin dall’inizio delle investigazioni.”