Chiesti 22 anni di carcere per Gerlandino Messina; rischio condanna anche per il favarese Stefano Valenti

Per Gerlandino Messina, considerato l’ex capo di Cosa Nostra della provincia di Agrigento, oggi non collegato in videoconferenza, il pubblico ministero, Rita Fulantelli della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, ha chiesto 22 anni di carcere nell’ambito del procedimento che lo vede imputato davanti il Tribunale di Agrigento (composto dai giudici Giuseppe Melisenda Giambertoni, presidente, a latere Maria Alessandra Tedde e Giancarlo Caruso) con l’accusa di associazione mafiosa aggravata dall’essere stato promotore (per un certo periodo) e per essere stato trovato in possesso di un apparecchio idoneo ad intercettare le conversazioni delle forze dell’ordine.

Messina, 44 anni, era stato rinviato a giudizio, dal Gup Riccardo Ricciardi, ed è stato latitante per più di dieci anni prima di essere arrestato nell’ottobre del 2010 a Favara.  E questo processo trae origine proprio dal giorno della cattura.

Condannato già una volta per associazione mafiosa, i pm hanno contestato lo stesso reato a partire dal 1999 sino alla cattura specificando che è stato capo provincia a partire dall’arresto dell’altro boss latitante, Giuseppe Falsone catturato poco tempo prima.

Per il pm Fulantelli, Gerlandino Messina, difeso dall’avv. Salvatore Pennica, è stato boss dei boss sino al giorno dell’arresto. Il processo riprenderà il prossimo 10 marzo con l’arringa difensiva dell’avvocato Salvatore Pennica e le repliche per poi concludersi il 24 marzo successivo con la lettura della sentenza.

Sempre lo stesso Tribunale, sempre oggi, poco prima aveva celebrato udienza riguardante l’imprenditore favarese Stefano Valenti, 48 anni, unico tra gli imputati a scegliere il rito ordinario, accusato di estorsione ai danni della ditta di laterizi Fauci di Sciacca.

Per lui il pubblico ministero Emanuele Ravaglioli ha già chiesto 14 anni di carcere. Richiesta formulata grazie anche al contributo fornito da due testimoni eccellenti: i collaboratori di giustizia Maurizio Di Gati e Angelo Siino. Entrambi hanno confermato davanti ai del Tribunale di Agrigento come la ditta Fauci pagava regolarmente il pizzo anche nei periodi in cui Cosa nostra subiva trasformazioni obbligate determinate dagli arresti dei boss. E così, Fauci ha pagato il pizzo prima a Salvatore Fragapane, poi al fratello Leonardo ed al compaesano Giuseppe Fanara, infine a Giuseppe Falsone. La peculiarità del pizzo imposto alla ditta Fauci è questa, come hanno raccontato Di Gati e Siino: veniva pagato attraverso fatture gonfiate. Si aumentava il costo delle operazioni contabili, si riscuoteva il relativo importo e la differenza tra il valore reale e quello creato veniva consegnato in contanti ai boss. Tale pratica veniva attuata, secondo l’accusa, proprio dall’imprenditore Valenti imposto alla ditta Fauci da Cosa nostra ed in particolare da Giovanni Brusca. Oggi ha tenuto arringa difensiva l’avvocato Enrico Quattrocchi che assiste l’imputato, sostenendo l’estraneità di Valenti rispetto ai fatti contestati. Il processo riprenderà il prossimo 24 marzo con l’altra arringa difensiva che sarà pronunciata dall’avv. Bonsignore. Poi ci saranno le repliche e la sentenza.