Mafia, la storia dei pentiti agrigentini (prima puntata): gli empedoclini

La provincia di Agrigento è sempre stata una terra difficile da interpretare, studiare e, infine, provare a comprendere.

In termini di mafia è ormai conclamato, anche in sede giudiziaria, l’onnipresenza di Cosa Nostra in tutti quei settori fondamentali della vita quotidiana. E’ altrettanto risaputo come in questa provincia, più che in altre, il radicamento delle cosche mafiose all’interno di pezzi della società sia stato un processo lungo e silenzioso ma che, purtroppo, ci ha consegnato una porzione di terra veramente ammalata di un male che, con il passare del tempo e nonostante le diverse operazioni delle forze dell’ordine, sembra sia più pungente e meno spettacolare di un tempo.

D’altronde, ed è la storia che ce lo insegna, la provincia di Agrigento da sempre rappresenta una delle roccaforti di Cosa Nostra. Non è neanche difficile provare a spiegare il motivo di questo forte metabolismo con cui i clan si sono infiltrati nei gangli vitali della società agrigentina e, soprattutto, di come l’omertà sia all’interno della struttura criminale ma, ancora più grave, nella società civile (fortunatamente non tutta) uno dei tratti distintivi. Leonardo Sciascia, scrittore agrigentino che della mafia aveva provato a studiarne le origini e le cause che ne avevano spianato la strada, affermava che gli agrigentini avevano in qualche modo metabolizzato, dall’immediato dopoguerra in poi, un certo modo di fare, di essere che, nel corso del tempo, si è imposto come peculiarità tipica del comportamento della società agrigentina e più in generale siciliana. E’ importante, dunque, avere chiaro e ben scolpito in mente in che tipo di contesto sociale ed economico si opera e in che termini Cosa Nostra ha avuto vantaggi, dal comportamento omertoso operato da gran parte della società agrigentina, ma anche svantaggi e gravi colpi inferti dallo Stato grazie alla rottura, all’interno della struttura criminale, proprio di quel tratto omertoso che ne aveva contraddistinto la storia fino agli inizi degli anni 90.

Non è un caso, infatti, che i primi pentiti che parlano e rendono dichiarazioni sulla mafia della provincia di Agrigento non siano agrigentini bensì uomini appartenenti ad altre consorterie mafiose di altre province.

A questo punto appare necessario operare una suddivisione in due grandi blocchi in cui si collocano idealmente due generazioni di pentiti: nel primo raggruppamento, che può essere contestualizzato dalla metà degli anni 90, appartengono i primi esponenti agrigentini, in modo particolare empedoclini, che hanno intrapreso il percorso di collaboratori di giustizia e che, proprio perché rappresentano una “prima volta assoluta”, sono stati decisivi più di altri nel fornire informazioni sulla struttura di Cosa Nostra, dettagli su omicidi, fornendo una linea guida da seguire. Dalle dichiarazioni di suddetti pentiti, inoltre, provengono le maxi operazioni antimafia Akragas I e Akragas II, tra il 1998 ed il 1999, che ancora oggi rappresentano forse il più grande colpo inflitto a Cosa Nostra agrigentina. Pasquale Salemi, inteso Maraschino; Alfonso Falzone e Giulio Albanese. Tutti originari di Porto Empedocle, paese che ha da sempre fornito “personale” di spessore a Cosa Nostra, sono loro i primi che hanno cominciato a far tremare la terra da sotto i piedi dei mafiosi agrigentini. Dalle loro rivelazioni è emerso un sistema altamente complesso, suddiviso in “province”, “mandamenti” e “famiglie”, all’interno del quale sarebbe impossibile accedere se non superando le prove di un rigido rituale di affiliazione.
Oltre a ciò, la disposizione dei gruppi agrigentini verrebbe connotata da una forte caratterizzazione individuale, che farebbe attribuire il “mandamento” al luogo d’origine del soggetto deputato a rappresentarlo, e non al paese stesso come nella procedura palermitana. loro i primi che hanno descritto le famiglie, i mandamenti, le dinamiche interne all’organizzazione. Tre persone che hanno alle spalle una propria storia, diverse l’una dall’altra, che però ci daranno importanti spunti per capire le personalità che abbiamo di fronte. Inoltre, i numerosi riscontri alle loro preziose dichiarazioni hanno permesso – e permettono tutt’ora – di ricostruire l’intero organigramma di “Cosa nostra” agrigentina, individuandone i rappresentanti provinciali che via via si sono succeduti al comando, e, a cascata, i capi dei “mandamenti” nonché gli affiliati delle numerosissime “famiglie”.
Il secondo raggruppamento, in cui abbiamo suddiviso idealmente i pentiti dell’agrigentino, rappresentano i più recenti contributi collaborativi che hanno fornito agli inquirenti un ulteriore valido aiuto alla comprensione dell’assetto criminale – mafioso nell’agrigentino e di come essa sia un’organizzazione spietata e saldamente radicata su tutto il territorio provinciale ma operativa anche in altre regioni. In questo gruppo, inoltre, verranno analizzate le posizioni di criminali, oggi pentiti, che hanno ricoperto un ruolo di primo piano all’interno del sodalizio mafioso nell’agrigentino.

E’ il caso di Maurizio Di Gati, barbiere di Racalmuto ,al vertice della Cupola agrigentina dal 2002 fino al momento dello scontro con il rivale di Campobello di Licata, Giuseppe Falsone. Il pentimento di Di Gati ha ovviamente spalancato porte agli inquirenti fornendo testimonianze di assoluto rilievo; un ruolo di vertice all’interno della famiglia mafiosa di Porto Empedocle lo ha avuto sicuramente Luigi Putrone, per gli amici “Luvici”: senza il suo permesso, dal 1998 al 2005 quando venne catturato in Repubblica Ceca, non si muoveva foglia a Porto Empedocle. Neanche un anno dopo, il giorno in cui morì la madre, Putrone decise di collaborare con la giustizia e cominciò a parlare. Parlò di morte, arrecata in nome di un ideale mafioso. Notevoli, infine, sono stati i contributi forniti agli inquirenti dai pentiti Calogero Rizzuto, alias “cavigliuni”, a capo della famiglia mafiosa di Sambuca di Sicilia che ha permesso di ridisegnare gli assetti della mafia nella Valle del Belice, e Giuseppe Sardino, ex consigliere comunale di Naro, collante tra mafia e politica oltre ad essere stato un fedelissimo della primula agrigentina, Giuseppe Falsone, arrestato a Marsiglia da capo mafia della mafia agrigentina il 25 Giugno 2010. Un paragrafo tutto suo, infine, merita certamente Giuseppe Tuzzolino, architetto agrigentino finito in carcere per reati contro il patrimonio che, nonostante abbia scontato la sua pena, ha deciso di compiere il salto e intraprendere la strada della collaborazione con la giustizia. Tuzzolino è sicuramente un pentito “sui generis”: i riscontri delle sue dichiarazioni sono attualmente al vaglio degli inquirenti che, però, non hanno ancora di certo “bollato” la sua posizione. L’architetto pentito è un fiume in piena e rappresenta di certo il più recente contributo (da verificare) inerenti a summit di mafia, incontri, accordi politici e massoneria. Proviamo a parlarne meglio.
LA STORIA DI MARASCHINO, IL PENTITO DALLE MILLE GIRAVOLTE. Pasquale Salemi è un personaggio alquanto ambiguo. Sono ancora vive le ormai storiche immagini delle televisioni che lo riprendono all’interno dell’aula bunker di Villaseta dove si è celebrato il processo contro i vertici della mafia empedoclina, nel 1989. Maraschino a fatica veniva trattenuto dagli altri detenuti presenti: urla, insulti, minacce. Questa breve ma intensa descrizione ci chiarisce fin da subito il personaggio che abbiamo davanti. Sono numerose le giravolte effettuate da Salemi: a servizio della mafia “da marina”, primo cugino di Gerlandino Messina, super boss di Porto Empedocle, ed imparentato con altri affiliati riconducibile proprio al clan Messina che, in quegli anni, proveniva da una sanguinosa guerra di mafia contro la Stiddra. Condannato all’ergastolo per l’omicidio di Antonio Messina, inteso “u birgisi”, a Realmonte, Maraschino inizia a traballare. Dissidi sopraggiunti con l’allora capo mafia Luigi Putrone , che lo “posò”, hanno accelerato solamente il pentimento. Anche perché Maraschino fiutava aria di morte e le acque per lui si erano fatte terribilmente mosse. In paese trapelavano notizie di un possibile pentimento e, in un batter d’occhio, apparirono sulle mura di “Vigata” manifesti funebri intestati a Salemi. Così, nel maggio 1997, Maraschino si presenta alle porte degli inquirenti e comincia la sua strada da collaboratore. Neanche un anno dopo scatta prima grande operazione antimafia nell’agrigentino, Akragas I, che infligge un durissimo colpo alla mafia del suo paese d’origine. Parla, definisce dettagli ma tiene fuori dalle accuse i suoi parenti, i Messina, che scamperanno alla prima tranche del blitz. Torna alla ribalta delle cronache recentemente e lo fa in pieno stile Salemi. 8 Ottobre 2015: la Direzione Distrettuale Antimafia toglie dal programma di protezione il nome di Pasquale Salemi. Ancora una volta, forse l’ultima, Maraschino compie l’ennesima giravolta: viene pizzicato, infatti, a contattare parenti e conoscenti di Porto Empedocle per ottenere informazioni sullo stato di Cosa Nostra e poter girare a proprio vantaggio quanto appreso. Analogamente, Maraschino viene ulteriormente intercettato mentre, al telefono con una donna pregiudicata, indicava la via, oltre a chiederle di fornirgli un pc, per “vendere” collaboratori di giustizia. Ed ancora, è stato confermato come Salemi avesse messo su un vero e proprio giro di affari che gli permettesse, cercando nuove conviventi da inserire nel programma di protezione, di poter dividere i proventi dei contributi derivanti dallo status di pentito. Questo è Maraschino.

 

ALFONSO FALZONE, COLLABORATORE DOPO ESSER RIMASTO FERITO. “Ero disoccupato e cercavo un lavoro. Mi venne proposto di far parte della mafia, scelsero me perché sapevano che mi piaceva farmi rispettare. Non sono stato solo un egoista, di più: ho tradito la fiducia dei miei genitori. Racconto la mia storia perché voglio evitare che altri ragazzi ripetano i miei stessi errori, devono sapere che considero la mia vita un fallimento. Invito i mafiosi a ravvedersi: non è vero che da Cosa Nostra si può uscire solo da morti o se arrestati. Ora c’è la legge per diventare collaboratori di giustizia che consente di saldare i propri debiti con lo Stato e dare un futuro alla propria famiglia. La gente deve imparare a reagire alla mafia, dopo i miei omicidi io vedevo un paese rassegnato. Ho ucciso, fatto sequestri e violenze: non era questo che volevo per la mia vita”. Non esistono migliori parole se non quelle proveniente direttamente dalla bocca di un’altra pietra miliare dei collaboratori di giustizia agrigentini. Lui è Alfonso Falzone, appartenente alla cosca di Porto Empedocle, e queste parole sono un reperto praticamente storico rilasciate in un libro-intervista al collega Alfonso Bugea, peraltro suo ex compagno di scuola. Uno dei killer più esperti e freddi di Cosa Nostra, Falzone riscrive intere pagine della mafia agrigentina e, soprattutto, il contributo in termini di chiarezza ed efficenza che offre allo Stato ha pochi eguali. E’ grazie alle sue dichiarazioni che, questa volta con nomi e cognomi anche del clan Messina, riesce a far arrestare i mafiosi che erano scampati al blitz “Akragas I”. Sempre Falzone spiega: “Cosa Nostra il venerdì non ha mai ammazzato”, riferendosi a quegli omicidi rimasti senza un colpevole e senza una pista da seguire. Nel Gennaio del 1999 riesce, grazie alle sue dichiarazioni, a far arrestare uno dei più spietati killer agrigentini, il favarese Giuseppe Fanara. Spiega le dinamiche di uno dei sequestri più mediatici e sconvolgenti della storia della mafia: il sequestro del piccolo Di Matteo, figlio del pentito Santino a cui Cosa Nostra aveva deciso di presentare il conto per non aver rispettato la prima regola fondamentale: l’omertà. Fa luce sui 21 omicidi che Cosa Nostra compie dal 1990 al 1994 nella provincia di Agrigento, facendo chiarezza anche sull’omicidio, avvenuto nel 92 a Sciacca, di Pasquale Di Lorenzo, agente della polizia penitenziaria, scelto come esempio da dare a tutti gli altri agenti che non si piegavano alle richieste dei boss da dietro le sbarre. Alfonso Falzone, inoltre, è stato il collaboratore di giustizia che ha fatto, una volta per tutte, chiarezza sull’omicidio del “mastinoGiuliano Guazzelli, maresciallo dei carabinieri barbaramente assassinato sul Ponte Morandi, arteria che collega Agrigento a Porto Empedocle. Dopo grandi sviste giudiziarie, che avevano peraltro portato a condannare esponenti stiddari che nulla avevano a che veder con l’omicidio Guazzelli, Falzone riesce a fare nomi e cognomi dei killer e delle dinamiche dell’uccisione del maresciallo. Il pentimento di Falzone arriva in maniera rocambolesca. In un gruppo di fuoco partito alla volta del ristorante “Lo Zingaro”, situato a Villaggio Mosè, rimane ferito di striscio da una pallottola esplosa dal compare Gerlandino Messina. Il sangue e il relativo test del Dna fecero il resto, accelerando sicuramente il processo di pentimento del Falzone.

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