Mafia

Strage Capaci, il ricordo di Pietro Grasso: “Quel giorno dovevo essere in macchina con Giovanni e Francesca”

“Fatico a trovare le parole per descrivere il dolore in quel momento"

Pubblicato 3 anni fa

“Sono passati ormai trent’anni da quel sabato 23 maggio in cui Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonino Montinaro vennero uccisi, ma non c’è stato giorno in cui non abbia ripensato e rivissuto quelle ore. Fin dal venerdì, come spesso capitava, con Giovanni e Francesca eravamo d’accordo che saremmo tornati insieme a Palermo: mi avrebbero dato un passaggio sul volo di sicurezza a disposizione di Falcone. Saremmo dovuti partire la sera, ma verso le due del pomeriggio Giovanni mi avvisò che, per ragioni di lavoro, Francesca non si sarebbe liberata prima della tarda mattinata di sabato […] Gli risposi che avrei provato a trovare posto sul volo di linea: “Se riesco torno oggi, così ho qualche ora in più da passare con Maria e Maurilio”. […] Ho ancora il tagliando di quel check-in: volo Alitalia BM 0204, imbarco alle ore 19.40 del 22 maggio 1992, posto 1 L.
Solo grazie a quel colpo di fortuna non fui in macchina con loro il giorno dopo”. Questo il racconto del senatore Piero Grasso – già giudice a latere del maxi processo di Palermo, poi procuratore di Palermo, procuratore nazionale antimafia e presidente del Senato.

“Fatico ancora a trovare le parole per descrivere il dolore in quel momento: avevo perso il mio amico più caro, oltre che un collega e un maestro. Per anni Giovanni aveva resistito a ogni attacco, a ogni insinuazione, a ogni tentativo di delegittimazione, a ogni agguato. Aveva combattuto tante battaglie, continua Grasso, e molte le aveva perse non per colpa della mafia ma di chi avrebbe dovuto dargli aiuto, sostegno, mezzi, fiducia. Eppure non si era mai fermato: dopo ogni caduta aveva trovato la forza per rialzarsi e riprendere il cammino. Non erano stati gli attacchi di Cosa nostra ad appesantire le sue giornate e a togliergli il sonno, ma quelli dei magistrati, dei politici, dei giornalisti che fino al giorno prima della strage lo avevano ferocemente criticato, e dal giorno dopo presero a incensarlo, a esibirne le foto, come se fosse una bandiera da sventolare per coprire le proprie ipocrisie, le proprie carenze, mancando di ogni senso di vergogna. Alla nausea, al vuoto, alla rabbia, la mia testa rispose con una serie di immagini felici di Giovanni, di Francesca, del tratto di vita che avevamo percorso insieme.
Tornai a casa, distrutto, e trovai Maria altrettanto disperata. Non avevamo ancora realizzato l’enorme perdita, io maledicevo la coincidenza che in quel momento, oltre a Giovanni, ci fosse anche Francesca nell’auto, ma Maria mi disse: “Sono sicura che non avrebbe voluto sopravvivergli, ne sono certissima… ne avevamo parlato tante volte, e io la penso esattamente come lei”. Andai nello studio, iniziai a frugare nella mia borsa per recuperare un accendino d’argento della Dunhill. Qualche settimana prima, durante uno dei tanti voli Roma-Palermo fatti insieme, Giovanni lo aveva tirato fuori dalla tasca e me lo aveva consegnato: “Piero, tienilo tu, ma non è un regalo. Ho deciso di smettere di fumare. Se mai dovessi ricominciare, me lo dovrai restituire”.
Non ne ebbe il tempo. Lo conservo gelosamente, lo porto sempre con me, in tasca o nella borsa, e quando vivo momenti difficili o sono di fronte a scelte importanti lo tengo in mano, lo stringo e mi sembra di sentire la sua pacca sulle spalle o il sussurro di un buon consiglio. Mi assicuro che sia sempre funzionante, che risponda al giro della rotella con quella scintilla di fuoco, di forza, di intelligenza, di determinazione, che ricorda gli occhi del mio amico Giovanni”.ha concluso Pietro Grasso.

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