Le mani della mafia sulle “sensalie”, il tribunale: “Radicato clima di omertà degli imprenditori”
Il tribunale di Agrigento, nel ribadire la pressione soffocante della mafia in questo campo, ha sottolineato però anche il clima omertoso di imprenditori e mediatori
“La circostanza che la quasi totalità degli intermediatori e degli imprenditori agricoli del territorio interessato alla attività delle due consorterie criminali (Cosa nostra e Stidda) fossero sottoposti a richieste estorsive e che gli episodi emersi nel presente procedimento costituiscano una sorta di punta dell’iceberg di un fenomeno di più vasta portata.” A scriverlo sono i giudici della seconda sezione penale del tribunale di Agrigento, presieduta da Wilma Angela Mazzara, nelle motivazioni della sentenza Xydi, l’operazione che ha fatto luce non soltanto sul mandamento mafioso di Canicattì ma anche sulla riorganizzazione della Stidda in provincia di Agrigento.
Un capitolo – in particolare – è dedicato alle estorsioni compiute e tentate delle due consorterie. Dalle indagini, adesso cristallizzate con una sentenza che ha portato alla condanna di sette persone, è emerso che tra gli “appetiti” principali delle due organizzazioni vi erano quelle delle cosiddette “sensalie”, vale a dire il mondo di intermediazioni agricole. Un settore piuttosto redditizio soprattutto in questa porzione della provincia che “campa” di agricoltura, coltivazione e produzione di uva. Il tribunale di Agrigento, nel ribadire la pressione soffocante della mafia in questo campo, ha sottolineato però anche il clima omertoso di imprenditori e mediatori affermando che “taluni imprenditori, nonostante le evidenze, hanno continuato a mantenere atteggiamenti reticenti arrivando in alcuni casi a rendere dichiarazioni mendaci alla Polizia Giudiziaria”
Ecco cosa scrivono i giudici nelle motivazioni: “A riprova di tale assunto si evidenzia il dato , sociale prima ancora che giuridico, dell’atteggiamento dai mediatori e soprattutto degli imprenditori estorti; infatti nella quasi totalità dei casi di imposizione del “ pizzo”, emersi nel corso del processo , gli imprenditori non hanno denunciato l’estorsione, in alcuni casi ne hanno ammesso la ricorrenza solo in un secondo tempo, una volta convocati dalle forze dell’ordine e quando le estorsioni a loro danno erano già emerse aliunde, ed in particolare dalle intercettazioni. Peraltro, a riprova del radicato e diffuso clima di omertà, taluni imprenditori, nonostante le evidenze, hanno continuato a mantenere atteggiamenti reticenti arrivando in alcuni casi a rendere dichiarazioni mendaci alla Polizia Giudiziaria come nel caso di Saccomando Stefano, il quale pur essendo stato pesantemente estorto, come emergente dalle intercettazioni, ha risolutamente negato i fatti ed è stato pertanto imputato al capo 13) del reato di favoreggiamento personale aggravato [..] Giova inoltre rilevare che la pratica delle estorsioni, secondo le logiche mafiose tipiche di cosa nostra e della stidda , risponde ad una duplice finalità: la prima è quella immediata e maggiormente vistosa ravvisabile nella percezione di indebiti guadagni , parassitando l’attività economica altrui; l’ulteriore finalità è invece ravvisabile nel controllo del territorio, giacchè la imposizione effettuata nei confronti delle attività economiche quantomeno le più rilevanti della zona, consente anche il controllo del territorio ed un più profondo radicamento del potere delle consorterie mafiose. Nel presente processo, le estorsioni venivano realizzate secondo una duplice forma: la prima e più evidente è l ’ingerenza “parassitaria” nel settore economico con l’imposizione del “pizzo” agli altri mediatori, diversi dagli uomini delle organizzazioni mafiose, ovvero agli imprenditori agricoli; la seconda è la imposizione di un regime nel quale soltanto i sodali ovvero soggetti da questi autorizzati, potevano effettuare le intermediazioni con la conseguente realizzazione di un vero e proprio regime monopolistico. In tale ultimo caso, la attività nonostante possa sembrare apparentemente lecita è comunque connotata dal metodo mafioso . Infatti in entrambi i casi la mafiosità del prelievo estorsivo è ravvisabile nel fatto che ove non ottemperata l’imposizione del pizzo ovvero non rispettato il regime di monopolio , sarebbero seguite reazioni violente anche pesanti da parte degli appartenenti al sodalizio criminale , come dimostrano i danneggiamenti ai vigneti registrati in quegli anni , gli attentati progettati dagli imputati oggetto anche di conversazioni intercettate e in generale il clima diffuso di omertà sfociato nelle false testimonianze e nelle reticenze degli imprenditori , alcuni dei quali coinvolti nel presente processo.”