Agrigento

Politica non all’altezza e società civile silente: il terreno fertile della mafia agrigentina

Come svegliare le coscienze della società civile e quali risposte dare?

Pubblicato 3 anni fa

Il cammino di avvicinamento alla beatificazione del giudice Rosario Livatino, primo magistrato beato nella storia della chiesa, si è arricchito di un nuovo interessante spunto grazie ad un convegno organizzato dall’Arcidioscesi di Agrigento. Una tavola rotonda, che ben presto si è trasformata in un vero e proprio laboratorio di idee, a cui hanno partecipato i vertici delle istituzioni agrigentine – Il Prefetto, il Procuratore, il Questore, i comandanti provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza ed il capo della Dia, i magistrati oggi in pensione Luigi D’Angelo e Salvatore Cardinale – per parlare di come agisce la mafia sul territorio, dei cambiamenti al suo interno e delle risposte che la società civile è chiamata a dare. Ad introdurre il convegno è stato il cardinale Francesco Montenegro che ha esordito ricordando quanto gli fu detto non appena arrivato ad Agrigento: “La mafia qui non esiste”. Il cardinale, rappresentante di quella chiesa e dell’associazionismo cattolico divenuti nel territorio uno dei pochi punti di riferimento per la società civile nella lotta alla mafia negli ultimi anni, ha definito l’organizzazione criminale come “una malattia anche dello spirito che ha tutto l’interesse di creare rassegnazione, paura e dipendenza. Ed è proprio questo modo di agire, silenzioso, che porta all’omertà che spesso si traduce in complicità. E’ una battaglia culturale da fare.” 

Una riflessione più ampia sulle condizioni della provincia agrigentina è stata fatta dal Prefetto Maria Rita Cocciufa che, con modi gentili e la consueta pacatezza, non si è risparmiata nel muovere dure ma oggettive critiche alla politica, incapace il più delle volte di fornire risposte concrete se non addirittura non all’altezza del ruolo, e alla società civile “restia ad impegnarsi e partecipare attivamente al bene comune”. Un territorio, quello agrigentino, dove “quasi mai le cose che sembrano lo sono realmente. Anche nei rapporti personali ci sono sempre delle ombre, difficilmente assistiamo a comportamenti lineari e trasparenti. “C’è un’atavica stagnazione economica, una crisi occupazionale ulteriormente aggravate dalla pandemia. Abbiamo un tenore di vita che è a livelli abbastanza bassi ma non è soltanto un fatto economico. Oltre all’impoverimento economico se ne affianca uno culturale, altrettanto preoccupante. Lo scarso senso civico si trasforma in devianza che spesso non viene stigmatizzata dalla comunità. Anche le amministrazioni locali che non sanno dare risposte ai cittadini, sia per carenze strutturali ma anche perché chi ricopre ruoli di vertice non è all’altezza. Il quadro poi si completa con la percezione che non si vengano riconosciuti i diritti se non si ricorra ai favori.” E allora che fare? Il Prefetto lancia in tal senso un messaggio che ha il sapore di speranza: “Vorrei tanto intercettare questi segnali per coglierli e sviluppare strategie coinvolgendo le persone. Sono loro che possono cambiare il quotidiano e il futuro. Non ne vedo molti ma anche l’iniziativa di oggi, il confrontarsi, è una cosa importante per lanciare messaggi di apertura. Noi ci siamo.”

Società civile definita “assente e silente” anche dal Procuratore della Repubblica di Agrigento Luigi Patronaggio che con il suo intervento ha, non soltanto arricchito la discussione con il racconto di chi combatte e conosce la mafia agrigentina da ormai venticinque anni, ma anche fornito interessanti spunti sull’evoluzione e l’ambizione delle cosche agrigentine. Una mafia che, seppur ancora radicata alle tradizioni e ai consueti nomi ormai divenuti storici, ha anche cambiato pelle nel corso degli anni introducendo elementi di novità e nuovi ambiti di interesse. La svolta, come raccontato dal capo della Procura di Agrigento,  avviene con il famoso “tavolino” dove sedevano assieme mafiosi, imprenditori agrigentini e talvolta politici che si spartivano appalti pubblici. Ma non soltanto. Un’altra novità è la  presenza della massoneria nelle ultime operazioni contro le famiglie mafiose agrigentine. “Nell’agrigentino ci sono diverse logge formate in gran parte da medici, ingegneri, dipendenti pubblici che talvolta siedono accanto a mafiosi e imprenditori collusi.” Infine il procuratore traccia i nuovi orizzonti della mafia: “acqua, rifiuti, grande distribuzione, il settore delle energie alternative e del gioco illegale. La sanità merita un discorso a parte. “E’ forse la più grande impresa presente nel territorio per numeri di addetti e fatturato. Anche lì registriamo grandi infiltrazioni – ha dichiarato Patronaggio – La mafia non si impone più con le armi e in forma parassitaria ma vuole diventare imprenditrice e che vuole partecipare alla vita pubblica penalizzando chi della vita pubblica si vuole fare protagonista legittimamente. La mancanza di una imprenditoria sana, la mancanza di una politica e di una amministrazione all’altezza del compito morale e deontologico e ad una società civile che è assente, silente.” La luce in fondo al tunnel? “Impegno sociale e impegno delle coscienze.” conclude il procuratore. 

Preziosi contributi, dal punto di vista del controllo del territorio e dell’attività di prevenzione e repressione, sono stati forniti dagli interventi del Questore di Agrigento, Rosa Maria Iraci, e dal colonnello dei carabinieri, Vittorio Stingo. Il Questore, la più alta carica insieme al Prefetto in materia di pubblica sicurezza, ha illustrato le attività della Polizia di Stato: “Il fulcro del nostro lavoro è l’attività di prevenzione che ha lo scopo di aumentare la percezione di sicurezza del cittadino. Tra queste si configura la proposta di misura di prevenzione (foglio di via obbligatorio e avviso orale) mentre la sorveglianza speciale – semplice o aggravata – deve essere emessa dopo un vero e proprio procedimento penale seppur in una fase indiziaria. Ma ci sono anche altre misure di contrasto cosiddette atipiche: dal Daspo al Dacur. Infine sono stati trattati i sempre più attuali problemi in materia di violenza di genere, bullismo, cyberbullismo. 

Il colonnello Vittorio Stingo, comandante provinciale dei carabinieri di Agrigento, è intervenuto invece sul controllo del territorio dell’Arma che – in provincia di Agrigento – può contare sulla presenza di ben 42 caserme e di quasi mille militari: “Da oltre duecento anni conserviamo un rapporto simbiotico con il territorio caratterizzato da vicinanza, conoscenza e ascolto e una grande capacità di intervento. Prossimità, efficacia e quotidianità sono i tratti che contraddistinguono il nostro mondo. Le associazioni mafiose le combattiamo con presenza sul territorio e conoscenza grazie alle quarantadue caserme sparse per la provincia di Agrigento. Il nostro lavoro è intenso ma anche rischioso anche in ragione di condotte criminali caratterizzate da violenza gratuita e sproporzionata. Le condizioni in cui si trovano ad operare le forze dell’ordine sono sempre più difficili e negli ultimi cinque anni ben quindici carabinieri sono stati uccisi durante lo svolgimento del lavoro, oltre diecimila feriti di cui duemila gravemente. A questi si aggiungono i carabinieri feriti intervenuti, anche in compagnia delle famiglie, liberi dal servizio. Come avvenuto negli scorsi giorni ad Agrigento quando un militare fuori servizio ha salvato un passante che era stato attaccato da un cane di grossa taglia non esitando a intervenire. La nostra presenza è costante anche negli ambiti del lavoro con la lotta al caporalato e allo sfruttamento; alla tutela dell’ambiente e del patrimonio.”

Sul concetto di società civile, introdotto dal Prefetto e dal Procuratore, è tornato anche il vicequestore Roberto Cilona, a capo della Direzione Investigativa Antimafia di Agrigento, che ha fornito in tal senso questa chiave di lettura: “Manca una sensibilità della comunità nel riconoscere chi è il mafioso a tal punto da considerare il suo agire quasi come normale. Basti pensare che in tutta la provincia di Agrigento ci sono, ad esempio, soltanto tre associazioni antiracket su una popolazione di mezzo milione di persone. Questo la dice lunga. La mafia ha necessità di monopolizzare i mercati criminali poiché trae da essi benefici economici e liquidità che viene utilizzata per sopperire alle esigenze minime della struttura criminale ma anche per poter proiettarsi in business di natura lecita. Il riciclaggio e il reinvestimento dei capitali illegali spesso viene usata per avvelenare mercati leciti.”

Infine un importantissimo contributo è stato fornito dal colonnello Rocco Lopane, comandante provinciale della Guardia di Finanza, per anni da capo della Dia di Trapani in prima fila alla caccia del super latitante Matteo Messina Denaro e all’indebolimento del suo impero economico. Il colonnello Lopane introduce e spiega il concetto di impresa mafiosa: “ L’associazione di tipo mafioso si avvale del vincolo associativo e dalla condizioni di assoggettamento che ne deriva e per acquisire in modo diretto o indiretto il controllo delle attività economiche. Mafia e affari. Ciò che è cambiato nel tempo sono le strategie e le modalità di infiltrazione e contaminazione della mafia nell’economia legale. La tendenza è quella di operare sotto traccia e in maniera silente rivolgendo le proprie attenzioni nella sfera imprenditoriale approfittando degli ingenti capitali derivati dai traffici illegali. Si tratta di modelli di mafia moderni, alla ricerca di consenso in aree geografiche depresse, come la provincia di Agrigento. Quando si parla di impresa mafiosa? Sicuramente quando nel patrimonio aziendale rientrano, quali componenti anomale, la forza di intimidazione e la condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva. Inoltre anche i mezzi illeciti utilizzati: che siano le risorse o i rapporti creati con la concorrenza. Questo crea l’alterazione delle regole o grande riciclaggio di denaro sporco. L’oggetto è lecito ma persegue il fine lecito attraverso meccanismi illeciti. Un altro passaggio importante che ci fornisce la giurisprudenza è la classificazione delle imprese mafiose: quella tout court e quella collusa. Queste ultime rappresentano la maggioranza dei casi ed è il fenomeno a cui bisogna stare più attenti. Nel primo caso, invece, l’associazione mafiosa attraverso teste di legno gestisce le componenti dell’impresa orientandone scelte e indirizzi gestionali. L’emergenza sanitaria, in quanto tale, potrebbe essere un affare (smaltimento rifiuti ospedalieri o appalti) per le mafie.”

Gravido di ricordi personali (che hanno portato al giudice Rosario Livatino) e professionali (che hanno rievocato al meglio l’evoluzione storica di Cosa nostra in provincia di Agrigento) sono stati gli interventi interessantissimi dei magistrati Salvatore Cardinale e Luigi D’Angelo, il primo pubblico ministero dell’inchiesta e del processo Santa Barbara, il secondo presidente della Corte d’Assise che inflisse severissime condanne a mafiosi e stiddari individuati con le operazioni “Akragas”.

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