Cultura

Vulannu vulannu” al Teatro della Posta vecchia

Lo spettacolo offre secondo il parere del regista una esaltazione tonale del dialetto parlato nell’entroterra agrigentino e ben si presta all’azione e al trasformismo del suo interprete

Pubblicato 5 mesi fa

“Chi tocca San Calò si rompe le ossa”. Lo gridava l’avvocato Malogioglio quando dal suo “fortino” di Porta di Ponte era il primo a lanciare il pane al Santo nero.  Immancabilmente la prima e seconda domenica di luglio. E infatti mal gliene incorre ad Aristotele Cuffaro che si becca qualche applauso  di cortesia allorchè l’altra sera al Posta vecchia scherza con la filastrocca che da anni ci canta Giovanni Moscato: ”San Caloiru di Girgenti fa li grazii pi nnenti….” e via felicemente cantando. Ma altro è l’affettuosa canzone, altro diventa spiegare tra allusioni e sberleffi narrativi la “sostanza” dei miracoli. Una narrazione dove era arduo trovare un “je suis Hebdo-Aristotele” tra un pubblico agrigentino che aveva già accolto sbuffando amaramente i problemi della sicurezza pubblica giustamente sollevati dal questore Ricifari, a sua volta  pervenuto ad un risultato che nei secoli nessuna curia vescovile era riuscito a ottenere. Se il regista Giovanni Volpe  che ha scritto e diretto lo spettacolo “Vulannu vulannu” e l’infaticabile attore martogliano Aristotele Cuffaro fossero stati più attenti alle vicende devozionali agrigentine, avrebbero avuto più credito e qualche applauso in più visto che il battimani è sempre corroborante. E come non vedere la benedicente mano di San Calò nel trasferimento del questore (promoveatur ut amoveatur) dopo appena otto mesi di reggenza agrigentina?

C’è poco da sorridere e  comunque dopo il primo quarto d’ora (con l’aggravante di una mitra episcopale indossata da Aristotele che cazzeggia sui miracoli), lo spettacolo prosegue con punte civili e risentite con un Cuffaro travestito da Chiarchiaro  in completo nero e occhiali scuri che impartisce  una “lectio magistralis” ad un ipotetico tribunale (di Camera o di Senato, fate voi) sulla dignità e valore della persona, sulle ingiustizie e su quanto di “nereggiante” l’Italia di oggi sta attraversando. E qui è venuta fuori non solo la bravura del Fregoli-Aristotele ma il senso di tutto lo spettacolo scritto da Giovanni Volpe di cui ricordiamo un altro spettacolo scritto a quattro mani con Gaetano Aronica, andato “on the road” in una delle albe nella Valle dei Templi. Anche allora scrivemmo su Grandangolo delle risonanze di un teatro politico che riecheggiava tra le colonne doriche. Poco esportabile fuori dalle mura siciliane per via della lingua, “Vulannu vulannu”, (che riecheggia nel finale una canzone di Franco Franchi con annessa una speranzosa preghiera), offre secondo il parere del regista una esaltazione tonale del dialetto parlato nell’entroterra agrigentino e ben si presta all’azione e al trasformismo del suo interprete che del civismo martogliano riesce a dare il meglio. Ed è facile supporre che la regia abbia faticato parecchio a frenare l’irruenza comica e la voglia di compiacere il pubblico del nostro Aristotele che qui si affranca dalla “vastasata” siciliana.

Foto di Diego Romeo

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