Inchiesta Xidy, il tribunale: “Accordo di pace tra Cosa nostra e Stidda ma diffidenza reciproca”
Oggi è possibile conoscere le motivazioni alla base della sentenza che rappresenta un ulteriore tassello nella storia della mafia agrigentina
Sono state depositate nelle scorse ore le motivazioni della sentenza del processo (rito ordinario) scaturito dalla maxi inchiesta Xidy, l’operazione dei carabinieri del Ros che fece luce sul mandamento mafioso di Canicattì e sulla rinascita della Stidda in provincia di Agrigento. Un procedimento corposo, conclusosi con sette condanne e due assoluzioni, che ha richiesto ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Agrigento un tempo più lungo (tre mesi) per il deposito delle motivazioni. In questo stralcio processuale sul banco degli imputati c’erano (tra gli altri) boss di primo piano di Cosa nostra e Stidda agrigentina, uno dei mandanti dell’omicidio del giudice Livatino, un ergastolano in semilibertà e anche un ex ispettore della Polizia di Stato. Questa la sentenza emessa dal tribunale cinque mesi fa: Giuseppe Falsone (22 anni); Antonio Gallea (22 anni); Santo Gioacchino Rinallo (28 anni); Antonino Chiazza (29 anni); Pietro Fazio (18 anni); Filippo Pitruzzella (12 anni e 1 mese); Stefano Saccomando (1 anno e 6 mesi). Il tribunale ha altresì assolto – per non aver commesso il fatto e perche il fatto non sussiste – l’avvocato Calogero Lo Giudice e Calogero Valenti, 60 anni, residente a Canicattì.
Oggi è possibile conoscere le motivazioni alla base della sentenza che rappresenta un ulteriore tassello nella storia della mafia agrigentina. Un intero capitolo è stato dedicato all’organizzazione della Stidda che, secondo quanto emerso, sarebbe tornata operativa grazie soprattutto alle figure di Antonio Gallea e Santo Gioacchino Rinallo. Gallea è uno dei mandanti dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990; Rinallo, uno dei killer più spietati dalle Stidda, è stato condannato all’ergastolo per il duplice omicidio dei fratelli Ribisi, esponenti di primo piano di Cosa nostra di Palma di Montechiaro. Sia Gallea che Rinallo, dopo aver scontato ininterrottamente venticinque anni di carcere, avevano ottenuto permessi premio in nome di un presunto ravvedimento. Il primo faceva volontariato e aveva intrapreso un percorso di studi mentre il secondo era diventato un cuoco e cantava in un coro gospel.
“IL RITORNO DELLA STIDDA”
Ecco cosa scrivono i giudici sul ritorno della Stidda: “ Come già accennato nella presente trattazione, sulla base della ricostruzione delle vicende per cui è processo – compendiate nelle numerose Cnr e negli altri atti indagini acquisiti di cui ha dato ampiamente conto in dibattimento il Colonnello Lucio Arcidiacono -, nell’ambito di diverse e precedenti attività investigative effettuate nella provincia di Agrigento era emersa la centralità del <<mandamento di Canicattì>>, al cui vertice aveva operato Di Caro Calogero, soggetto che aveva ricoperto <<un ruolo importantissimo in tutte le dinamiche associative di cosa nostra>>; tale associazione criminale risultava essere composta da cinque famiglie: quella di Castrofilippo, all’epoca inattiva, e quelle operanti di Canicattì, Campobello di Licata, Ravanusa e Licata. Come detto, le indagini cui si è fatto cenno consentivano di portare alla luce le complesse dinamiche mafiose che legavano tra loro le famiglie del mandamento, le quali, attraverso riunioni e strategie, alleanze e doppiogiochismi, avevano mantenuto il controllo assoluto su un’ampia porzione di territorio; “cosa nostra” aveva esercitato e continuava ad esercitare un’influenza ed un controllo capillare su vari settori cruciali dell’economia, come i servizi dei trasporti e le intermediazioni agricole (o “sensalie”), attività, quest’ultima, che costituiva la linfa vitale dell’economia locale e pertanto una fonte significativa di reddito illecito per l’organizzazione criminale. La strategia adottata non solo aveva consolidato il predominio dell’organizzazione criminale nella provincia ma aveva anche realizzato un obiettivo pratico ben definito: la creazione di un fondo comune, alimentato dai proventi delle attività illecite, destinato a garantire il sostentamento delle famiglie dei capimafia ancora detenuti, perpetuando così la forza e la coesione dell’organizzazione anche in assenza di alcuni dei suoi membri di vertice. Al contempo, era emersa << l’operatività sul territorio di un’articolazione stiddara molto, molto agguerrita>>, ricompattatasi dietro le figure di Gallea Antonio e Santo Rinallo; in quel contesto, la rinata “stidda” si era contrapposta a “cosa nostra” <<per il controllo di alcune attività>> ed in particolare della gestione delle citate “sensalie”. Sulla base della dettagliata ricostruzione effettuata dal Colonello Arcidiacono nel corso del suo approfondito esame testimoniale, è emerso che la “stidda” affondava le proprie radici alla fine degli anni Ottanta e si era radicata, principalmente, nel territori delle province di Agrigento e Caltanissetta e, in misura minore, nella zona del trapanese; la sua formazione era stata determinata da dissidi interni sorti nell’ambito di “cosa nostra”, riconducibili alla disapprovazione per la leadership di Di Caro Giuseppe, capo della provincia di Agrigento, e di Ferro Antonio, referente della famiglia mafiosa di Canicattì. Tali frizioni, come già evidenziato in precedenza, erano sfociate in una vera e propria scissione, con la nascita della “stidda” quale entità separata dalla potente organizzazione madre “cosa nostra”, ed in una lunga e sanguinosa guerra di potere che aveva segnato il contrasto tra le due fazioni, con scontri territoriali e lotte per il controllo delle risorse e degli affari illeciti. Il “nuovo aggregato mafioso” si caratterizzava per una struttura simile a quella di “cosa nostra” ma <<un po’ più orizzontale>> rispetto a quella della sua rivale, con la quale intraprese una lunga e sanguinosa guerra di potere. Del conflitto che si era innescato nel 1990 si è già trattato nella parte che precede. Tra le vittime di quel periodo si annovera anche il giudice Rosario Livatino, il quale, per la sua intransigenza e severità nei confronti dei membri della criminalità organizzata, era divenuto una delle figure più invise agli stiddari a causa del suo impegno nella lotta contro la criminalità organizzata. Va detto, per quanto d’interesse nella presente trattazione, che l’ordine di uccidere il Magistrato era stato impartito da Gallea Antonio, il quale, sebbene all’epoca fosse detenuto presso il carcere di Agrigento, aveva mantenuto le redini dell’organizzazione ed era stato in grado di fare veicolare il messaggio all’esterno. Il Colonnello Arcidiacono ha riferito che nel corso delle indagini relative al mandamento mafioso di Canicattì, nel periodo considerato nel presente processo, oltre alla presenza di “cosa nostra”, era emerso che nel territorio operava un’altra organizzazione criminale di tipo mafioso, la c.d. “stidda”. In particolare, da alcune conversazioni oggetto di intercettazione intrattenute tra i membri di cosa nostra, tra cui quella del 14.9.2020 avvenuta all’interno dello studio di Porcello Angela tra gli esponenti mafiosi Buggea Giancarlo, Boncori Luigi e Lombardo Gregorio, oltre cha tra questi ultimi ed esponenti della stidda, di cui si darà meglio conto nel prosieguo, emergeva il reiterato riferimento alle fibrillazioni esistenti all’interno del mandamento; fibrillazioni causate da alcuni soggetti che agivano senza l’autorizzazione di cosa nostra. Dal prosieguo del dialogo si acquisiva, in termini netti e inequivocabili, la conferma dell’operatività nel territorio agrigentino di entrambe le storiche associazioni di stampo mafioso: la stidda e cosa nostra. Acquisizione probatoria di notevole rilevanza investigativa era quella relativa al dato che le due associazioni mafiose, storiche rivali e protagoniste di una sanguinosa faida tra la metà degli anni ’80 e quella degli anni ’90, si trovavano ancora sul piede di guerra.A tal proposito, cristallizzano in modo inequivocabile la situazione esistente i dialoghi intercettati di Buggea Giancarlo – il cui tenore appare utile indicare almeno in parte – il quale, riportando il contenuto di un incontro cui aveva partecipato, spiegava che numerosi componenti della stidda, dopo avere scontato lunghissimi periodi di detenzione, reclamavano una parte del lucroso affare delle sensalìe minacciando reazioni, se non una vera e propria guerra, qualora ciò gli fosse stato negato. Il Buggea affermava che, durante l’incontro, si era professato in favore della pace, precisando che questa posizione era condivisa anche da Boncori Luigi, da “Favara” e “Palma”, passaggio quest’ultimo chiaramente riferito agli esponenti di cosa nostra delle due omonime cittadine agrigentine. Buggea indicava la schiera degli stiddari a cominciare dai suoi noti esponenti: Gallea Antonio, Migliore Angelo, Migliore Massimiliano, Avarello Giovanni e Rinallo Santo Gioacchino i quali, provenienti dal contesto mafioso stiddaro e di fatto liberi (ad eccezione di Avarello), si erano nuovamente coalizzati e reclamavano il loro spazio sul territorio, mostrandosi pronti a lottare per ottenere ciò che ritenevano gli spettasse. Tra i componenti del gruppo veniva indicato anche Chiazza Antonino, anche se non tra i più pericolosi ad avviso di Buggea. Boncori evidenziava inoltre che uno di questi soggetti (probabilmente riferito a Chiazza Antonino) aveva agito in maniera sconsiderata in quanto, in relazione ad una compravendita di una ingente partita di uva del valore di 400.000,00 euro, aveva schiaffeggiato un sensale alla presenza di altre persone. Boncori faceva inoltre notare che la pax mafiosa, per continuare a vigere, doveva essere voluta da tutte le parti e Buggea replicava che gli stiddari cercavano soltanto di potere partecipare anch’essi alla gestione del florido affare delle sensalie. Boncori, sempre riferendosi alle dinamiche che vedevano coinvolti gli esponenti stiddari, affermava testualmente che occorreva mantenere tutti un basso profilo (a differenza da quanto fatto in passato da “Peppe Puleri”) per non attirare mafioso dovevano assumersi la responsabilità delle azioni che commettevano, consapevoli che, ad un loro errore, sarebbe seguita una adeguata reazione e che cioè, qualora avessero colpito mediatori o soggetti a disposizione di Cosa nostra, la reazione di quest’ultima sarebbe stata tale da fare succedere “un bordello”. La predetta organizzazione faceva capo a due ergastolani, Antonio Gallea e Rinallo Santo, i quali, una volta ottenuta la semi-libertà, avevano ripreso in mano le redini della “stidda” continuando a gestire le attività criminali nel territorio.Tra i principali collaboratori di Gallea e Rinallo spiccava la figura di Chiazza Antonino247, pregiudicato mafioso di Palma di Montechiaro il quale, trasferitosi a Canicattì, aveva consolidato il potere della “stidda” portando con sé il proprio gruppo”