Borsellino, il pentito Galatolo in aula: “Volevamo uccidere La Barbera ma Madonia ci bloccò”
Inizia così la deposizione del collaboratore di giustizia Vito Galatolo al processo d'appello sul depistaggio sulla strage di via D'Amelio
di Elvira Terranova – Adnkronos
“Sono stato ‘combinato’ nel carcere Pagliarelli nel 2010, mentre ero detenuto. All’epoca il capomandamente Rosario Lo Bue reggeva Corleone. Eravamo tutti in carcere. Già all’eta di 11 anni facevo la ‘sentinella’ al vicolo Pipitone di Palermo, per vedere se arrivavano macchine della Polizia. Era il nostro covo. Da piccolini eravamo sempre a disposizione. Nella nostra famiglia non c’era bisogno che diventassi uomo d’onore per reggere la famiglia”. Inizia così la deposizione del collaboratore di giustizia Vito Galatolo al processo d’appello sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, in corso davanti alla Corte d’Appello di Caltanissetta presieduta da Giovambattista Tona. Davanti alla Corte nissena si ritrovano nuovamente alla sbarra i tre poliziotti del gruppo ”Falcone e Borsellino” accusati di concorso in calunnia aggravata dall’avere agevolato Cosa nostra. A rappresentare l’accusa sono i sostituti procuratori generali Antonino Patti e Gaetano Bono. E’ stato applicato dalla Procura anche il pm Maurizio Bonaccorso, che ha rappresentato l’accusa in primo grado, dopo l’addio di Stefano Luciani e Gabriele Paci, andati rispettivamente a Roma e Trapani. Nella sentenza di primo grado, emessa il 12 luglio del 2022, era caduta l’aggravante mafiosa per due dei tre poliziotti imputati del processo depistaggio Borsellino: prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei, mentre Michele Ribaudo era stato assolto. Il poliziotto Ribaudo era stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Erano tutti accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Rispondendo alle domande del pm Bonaccorso, il pentito Galatolo, collegato in videoconferenza da una località segreta, che viene sentito come testimone assistito, ha ripercorso la sua vita da criminale prima di collaborare con i magistrati. “Sono stato Capomamdanmento di Resuttana che comprende le famiglie mafiose di Acquasanta, Arenella e Vergine Maria- dice – Nella mia famiglia eravamo famiglia di sangue ma anche famiglia e di Cosa nostra. Mio zio, Giuseppe Galatolo, era un libro aperto, se fosse stato per lui potevamo fare gli uomini d’onore anche a 15 anni. Si faceva di tutto. Nel vicolo Pipitone si nascondevano armi, poi nel 1990 si sapeva chi pagava le estorsioni, avevamo interessi al mercato ortofrutticolo, ai cantieri navali”. Galatolo ha iniziato a collaborare nel novembre del 2014.
“LA BARBERA ERA A DISPOSIZIONE”
L’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera “era a disposizione della famiglia mafiosa dell’Acquasanta, ma soprattutto della famiglia Madonia. Mio zio lo definiva ‘mangia mangia’, era peggio degli altri. Era a disposizione. Era soprattutto Nino Madonia che teneva a La Barbera”. Lo ha detto il collaboratore di giustizia Vito Galatolo proseguendo la sua deposizione al processo d’appello sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. La Barbera era a capo del gruppo investigativo che indagava sulle stragi mafiose di cui facevano parte i tre poliziotti oggi imputati: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di concorso in calunnia aggravata. “Arnaldo La Barbera venne diverse volte in vicolo Pipitone a Palermo, quando mio zio Giuseppe Galatolo era agli arresti domiciliari. In due occasioni, mio zio Giuseppe si ritirò a parlare con La Barbera in uno scantinato. Veniva di sera e non di giorno. Una di queste volte è entrato nel vicolo e uno dei miei cugini gli ha fatto segnale di andare avanti ma lui fece capire che già sapeva dove doveva andare. Nella mia famiglia si diceva che La Barbera era uno che ‘mangiava peggio degli altri'”. Lo ha detto il pentito Vito Galatolo, proseguendo la deposizione al processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. “La Barbera era a disposizione dell’Acquasanta e del mandamento dei Madonia”, prosegue. Nel 1991, dopo che Arnaldo La Barbera uccise il mio amico Mimmo Fasone nella rapina nel centro di bellezza, noi volevamo dargli un colpo di legno, volevamo punirlo ma fummo bloccati. Ci hanno mandato a dire di non pensarci completamente. Perché Madonia ci teneva a lui”. A dirlo è il pentito di mafia Vito Galatolo proseguendo la deposizione al processo d’appello sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. “Mi ricordo che Mimmo Fasone era un ragazzo in gamba. Tra il 22 e il 23 dicembre del ’91 ci eravamo scambiati gli auguri di Natale poi, ai primi di gennaio del ’92, successe questa cosa che fu ucciso dal dottor La Barbera”, dice Galatolo, in videocollegamento. All’epoca La Barbera era il dirigente della Squadra Mobile. “Quando il giornale pubblicò la notizia che Arnaldo La Barbera aveva ucciso Mimmo Fasone ci fu tanta rabbia, perché comunque un ragazzo giovane era stato ucciso. E si cominciò a dire di ‘andare a rompere le corna’ a questo La Barbera’. Dicevamo ‘ma come si è permesso a uccidere questo ragazzo?’. Ma poi mio cugino Angelo e i miei zii disse che non si poteva fare perché Madonia teneva a lui”.
“FACCIA DA MOSTRO FACEVA PARTE DEI SERVIZI DEVIATI”
Giovanni Aiello, detto ‘Faccia da mostro’, “faceva parte dei servizi segreti deviati. Io l’ho visto più volte in vicolo Pipitone, all’Acqusanta. Veniva spesso nel periodo tra l’84 e l’85, fino all’arresto di Madonia”. A dirlo al processo d’appello sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Aiello era un ex poliziotto della Squadra Mobile di Palermo con passato nei servizi, conosciuto alle cronache come “Faccia da mostro” e finito al centro di alcune vicende controverse. E’ morto d’infarto nel 2017. Aiello era stato iscritto nel 2015 nel registro degli indagati con i boss Gaetano Scotto e Salvino Madonia. Per i capi mafia la procura aveva chiesto l’archiviazione, ma il giudice respinse l’istanza ordinando nuove indagini tra le quali il confronto fra il padre della vittima e Aiello. “Quando facevo la sentinella a Vicolo Pipitone, nel nostro covo, finoa a poco prima delle stragi del ’92, ricordo che venivano anche degli appartenenti alle istituzioni. Ricordo che c’era il maresciallo dei Carabinieri Sarzana, che era al libro paga della famiglia dell’Acquasanta. Era lui che ci avvisava delle cose che accadevano. Da noi veniva anche Giovanni Aiello ‘faccia da mostro’. E lo disse mio zio Giuseppe Galatolo a dire chi era e che lavorava per lo Stato. Ma finché non ho collaborato non sapevo chi fosse, lo chiamavamo ‘faccia da mostro’ perché ci faceva paura”. A dirlo, proseguendo la deposizione al processo d’appello sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, è il pentito di mafia Vito Galatolo. Giovanni Aiello era un ex poliziotto della Squadra Mobile di Palermo con passato nei servizi, conosciuto alle cronache come “Faccia da mostro” e finito al centro di alcune vicende controverse. E’ morto d’infarto nel 2017. Aiello era stato iscritto nel 2015 nel registro degli indagati con i boss Gaetano Scotto e Salvino Madonia. Per i capi mafia la procura aveva chiesto l’archiviazione, ma il giudice respinse l’istanza ordinando nuove indagini tra le quali il confronto fra il padre della vittima e Aiello. “Faccia da mostro”, funzionario dei servizi segreti in attività a Palermo negli anni Ottanta, fino alle grandi stragi del 1992, era stato riconosciuto nel febbraio del 2016 da Vincenzo Agostino, padre del poliziotto di Palermo, Antonino, ucciso con la moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989. “E’ lui, è quello che mi sta guardando”, avrebbe detto Agostino, che dal giorno dell’omicidio di suo figlio non si è mai più tagliato la barba. L’ex agente segreto sarebbe colui che prima del delitto sarebbe stato visto vicino alla sua abitazione. Uscendo Agostino confermò di averlo riconosciuto “anche se era ben truccato”. Poi, Galatolo cita anche altri esponenti delle istituzioni che avrebbero frequentato la famiglia mafiosa dell’Acqusanta. “Veniva anche Bruno Contrada, Arnaldo La Barbera, nei primi anni ’90, ’91 e ’92, veniva spesso nella nostra borgata prima delle strage di via D’Amelio. Poi c’erano personaggi che venivano a cercare latitanti, venivano due poliziotti, tali Agostino e Piazza, che venivano a cercare chi entrava e usciva. Il nostro compito da sentinelle era avvisare e farli scappare”.