La “Supermafia”: l’unione di ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra passa da Canicattì
Vedremo cosa accadrà nei prossimi mesi e, soprattutto, cosa riusciranno a trovare i pubblici ministeri milanesi guidati dall’agrigentino Marcello Viola
Una vicenda criminale ancora tutta da ricostruire e incastonarla nel posto giusto e con la dovuta perizia. L’operazione Hydra di due settimane fa, scattata per volere della Procura di Milano che ha individuato la “Supermafia” – l’unione di ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra – pronta a dettare legge su tutto il territorio nazionale ha lasciato numerosi tasselli ancora fuori posto e il provvedimento del Gip del Tribunale di Milano che ha azzerato numerose certezze ne è la riprova.
Tuttavia, la “Supercosa” è stata delineata, radiografata, stilizzata ed è ben visibile. Vedremo cosa accadrà nei prossimi mesi e, soprattutto, cosa riusciranno a trovare i pubblici ministeri milanesi guidati dall’agrigentino Marcello Viola con le mai terminate e rinnovate investigazioni. Di sicuro ci troviamo davanti ad un fatto straordinario sul fronte della criminalità organizzata che il quotidiano La Repubblica, con un articolo brillante di Massimo Pisa, descrive così:
“Prima che diventasse un’Hydra dai molti tentacoli, e che portasse a documentare e teorizzare un “sistema mafioso lombardo”, il lavoro della Dda e dei carabinieri del Nucleo investigativo di via Moscova era cominciato come semplice costola dell’inchiesta e del processo “Krimisa”, l’operazione che aveva smantellato la locale di ’ndrangheta di Legnano e Lonate Pozzolo e la sua infiltrazione nel business dei parcheggi a Malpensa. E all’origine di questa storia c’è un pentito sui generis, il 55enne Emanuele De Castro. Palermitano ma al vertice di una proiezione delle ’ndrine calabresi, un unicum. Al pm Alessandra Cerreti e all’aggiunto Alessandra Dolci, De Castro fornì i tre motivi della sua decisione di saltare il fosso verso la legalità: «Perché io non voglio che mio figlio faccia ’sta fine — spiegò il 7 agosto 2019 — come l’ho fatta io sinceramente. Poi perché sono stanco. E poi perché mi sembra una vita assurda, una vita un po’ da criminale, da… E allora avendo ricevute queste lettere da mio figlio mi ha scosso la coscienza, mi ha colpito. E da lì ho deciso di collaborare, da lì… Perché è giusto che lui si faccia una sua vita».
Il nome era grosso e i legami di alto livello, se è vero che proprio il figlio Salvatore — poi molla del pentimento — venne seguito dal Ros dei carabinieri mentre andava a Malpensa a prelevare Matteo Messina Denaro per una visita al carcere di Voghera, dove Emanuele “il siciliano” scontava una precedente condanna. «Durante la co-detenzione si era creato un rapporto amicale con Guttadauro — spiegò il boss — che sapevo essere il nipote “del cuore” di Matteo Messina Denaro e anche per questo ho ritenuto di mettermi a disposizione per le necessità della moglie». E già qui si potevano intravedere certi futuri legami. Insomma, parlò De Castro e indicò altri appartenenti alla locale sfiorati dall’indagine Krimisa e poi monitorati in Hydra. Come Giacomo Cristello, Pasquale Rienzi («dovrebbe avere la crociata»), Armando Lerose («mastro di giornata, è un nostro affiliato»). Infine Massimo Rosi, uno degli undici arrestati su ordinanza del gip Tommaso Perna e uomo-chiave, secondo il pm Alessandra Cerreti, del sistema: «Prima era Massimo Rosi il capo società», spiegava De Castro parlando della metà degli anni Duemila. Nome quotato, uno che «trafficava forte in droga con i Barbaro, Pasquale Barbaro». ‘U Castanu. «Poi avevano questi atteggiamenti che a noi non piacevano. Era un po’ arrogante, un po’ presuntuoso e gli era stata tolta la carica». E non solo: «Addirittura si era pensato di ucciderlo Massimo Rosi perché non ci fidavamo più di lui. Iniziò ad allontanarsi da noi, il periodo che lui si andò a costituire stavamo pensando di assassinarlo e lo curavamo io», e un altro picciotto, nominato dal boss.
L’ultimo nome pronunciato da Emanuele De Castro aveva vaghe assonanze con Totò Riina: “Tanu ’u curtu”, al secolo Gaetano Cantarella, catanese imparentato con i Mazzei, ufficialmente barista a Legnano. Dai suoi movimenti gli investigatori sono partiti, certificando subito i suoi contatti con Gioacchino Amico — l’uomo del matrimonio pieno di “gente di rispetto” — e Giancarlo Vestiti, emissari dei camorristi Senese da Roma. E con Paolo Aurelio Errante Parrino, il messaggero di Matteo Messina Denaro. Pochi giorni di intercettazioni, però, e “Tanu ’u curtu” sparì. In volo per Catania il 1° febbraio 2020, in auto per Canicattì due giorni dopo per incontrare “Iachino” Amico, poi svanito. Si trovò solo la sua Fiat Panda a Riesi, nel nisseno. Lupara bianca per gli investigatori (“indimostrata” la etichetta il Gip Perna). Un caso discusso da decine di indagati. «Si sono portati un fratello nostro», lamenta l’autista Pippo Castiglia, che riferisce ad Amico di aver formulato un sospetto ai familiari di Cantarella: «Sai a quale indirizzo l’ho.. lì ho indirizzati? indovina? Dinosauro… di… Dino». Cioè il trapanese Bernardo Pace: «Gli dissi che hanno avuto discussioni pesanti».
Presto invece gli indagati scopriranno di una somma di 300 mila euro che Cantarella avrebbe sottratto ai soci e portato in Svizzera: «Lo hanno preso, lo hanno buttato dentro il cofano e finché non portava tutti i soldi, o li hai presi tu o me li dai dei tuoi…». Lo dice il gelese Dario Nicastro il 23 aprile 2021 alla mangiata organizzata da Massimo Rosi, che nel frattempo sta rimettendo in piedi la locale polverizzata da Krimisa. A modo suo, dopo aver ricevuto un “ambasciamento” dal carcere, il via libera di don Enzo Rispoli portato via lettera dal figlio Alfonsino. «Io adesso sono capo società. Giacomino (Cristello, ndr) banda armata e a lui (Pasquale Filomeno Toscano, ndr) lo metto mastro della Minore, invece a te (Roberto Toscano, poi defunto, ndr) ti metto mastro di giornata nella Maggiore». Così Rosi poteva annunciare: «Finalmente è rinato il locale e sta andando tutto in fiore». E seguendo lui, l’inchiesta è arrivata all’Hydra”.