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Giudice Davico: “Sicilia irredimibile per equilibri imposti da congreghe”

 “Giglio di mare”, il primo libro del magistrato Alberto Davico è stato presentato presso la Biblioteca Lucchesiana di Agrigento, diretta da don Angelo Chillura.  Scritto dal giudice Alberto Davico, edito da Pacini Editore, sono intervenuti insieme alle massime autorità cittadine, il presidente emerito della Corte d’Appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, e don Angelo Chillura, docente […]

Pubblicato 4 anni fa

 “Giglio di mare”, il primo libro del magistrato Alberto Davico è stato presentato presso la Biblioteca Lucchesiana di Agrigento, diretta da don Angelo Chillura. 

Scritto dal giudice Alberto Davico, edito da Pacini Editore, sono intervenuti insieme alle massime autorità cittadine, il presidente emerito della Corte d’Appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, e don Angelo Chillura, docente di Teologia morale allo Studio teologico del Seminario e un breve  dibattito conclusivo. Con l’intervento dell’autore, che pone interrogativi, dubbi e sollecita a riflettere. Ecco il testo:

Giglio di mare non è una manifestazione di adeguatezza culturale da parte di un giudice che per curare l’insonnia scrive un breve giallo sotto il segno di tante influenze. (Suona piuttosto  riconoscibile l’eco di talune ambientazioni di Tom Clancy). Sfiora piuttosto la violazione di qualche regola su ciò che è consentito dire in   una società ove il collante più significativo è l’ipocrisia. Di sistema. E’ chiara la difficoltà di esprimersi  liberamente in una cultura che impone ormai cliché rigidi, difesi da reazioni violente per il caso di inosservanza. Ormai si può colpire qualunque diversa opinione (o anche una semplice osservazione) invocando il marchio di fascismo, sessismo, razzismo o emofobia. Con forzature che spesso mostrano l’intento di rendere inoffensivi avversari o soggetti ritenuti di ostacolo ad ampi “progetti di omologazione” grazie a compiacenti organi di stampa, magari finanziati con denaro pubblico. 

Mentre si illude la gente non solo di potersi esprimere su argomenti del tutto sconosciuti in quanto oggettivamente tecnici, ma anche di potersi sostituire a chiunque, in una visione più che semplificata. Così nasce la nozione di casta. In una continua banalizzazione degli stessi fondamenti dell’agire delle istituzioni  democratiche, da attaccare e svilire secondo schemi di comunicazione ricorrenti. In modo da rendere, in ipotesi, meno evidente ogni operazione volta allo svuotamento e al controllo. E ciò in correlazione con la nascita di movimenti studiati da menti raffinate per   convogliare e sterilizzare il dissenso. 

Si è sentito dire ultimamente che in una settimana qualunque ragazzetto di belle speranze potrebbe imparare a fare  il  ministro,  che  le sardine uscite dalla scatola ci insegneranno la strada, che Greta la sa lunga sulle scelte energetiche, che basta il buon senso della massaia per portare avanti  la Cosa pubblica e rendere attraenti i rapporti tra Stati. Lo schema sembra quello di togliere riferimenti. In  luogo  di  sostenere  e  migliorare  le  istituzioni  in  un progetto di vero progresso democratico. In un delirio collettivo sempre ben pilotato per distrarre da ciò che non si deve vedere.

Le linee di tendenza. La direzione. Verso il niente. 

Niente istituzioni, niente riferimenti, niente doveri. Figuriamoci poi per un semplice magistrato, che potrebbe essere agilmente sostituito da un tronista, con l’effetto del dimezzamento della durata dei processi, certo divenuti nel frattempo più giusti e magari profumati. Non si menzioni poi la materia della presunta tutela dei diritti umani di fronte all’azione dello Stato: non può più esprimersi una parola che non sia di totale asservimento rispetto a logiche distorte, che vedano in modo diretto o indiretto l’umana e preponderante simpatia verso chi ha infranto ogni regola del vivere civile, senza che si possa più  parlare  dell’istanza  retributiva e sanzionatoria della pena, che sola evita la vendetta privata. Come se le scelte in determinate materie non possano che essere il  necessario risultato di delicatissimi bilanciamenti  che vedano la tutela  dell’indagato e del detenuto, in modo tuttavia compatibile con la tutela degli altri cittadini offesi da chi la regola l’ha violata, sempre in funzione della strenua difesa dello stesso patto sociale. E  una  strana  opinione  pubblica, ben costruita e forse ormai di plastica, sembra imporre a chiunque, dico a chiunque, di prendere posizioni allineate. Anche a chi potrebbe precisare qualcosa di vero, in un eccesso di zelo. A fronte di un carabiniere ucciso con ventidue coltellate, unico, preponderante e insormontabile problema diviene quello del cappuccio messo sul capo all’arrestato. Un errore, certo, una misura non prevista, la cui sospetta enfatizzazione  di  fronte a  una  uccisione  brutale  rende tuttavia palese l’approccio artefatto nei confronti di chi opera per lo Stato

Lo Stato, una entità altra rispetto a noi, contraria, nemica, certo da avversare. Magari a pietrate in strada, nella simpatia divertita di un certo progressismo trasversale. Si parla poi in modo ossessivo di femminicidio, termine che davvero introduce una discriminazione in danno delle donne  ormai  fuori  dal  genus dell’essere  umano  a  cui ricondurre l’omicidio. Il femminicidio come unica e assorbente manifestazione di violenza in una società che è però complessivamente violenta, nel suo volto dalle mille espressioni. Prima  di tutto nei contenuti della  cultura di massa  e, specularmente, nella stessa informazione. Nella  cogente necessità da parte dei mass media   di specificare dove sono state trovate le tracce biologiche sugli indumenti intimi della ragazzina uccisa, senza neppure pensare a una possibile emulazione da parte di menti deboli. Ad opera di professionisti del cattivo   gusto e della superficialità, pronti a cercare pubblico già malato (o che deve diventare tale) sottolineando i   particolari più macabri e morbosi. Ma il pubblico (ovviamente senza capire) deve sapere. O almeno così si afferma per vendere quattro copie in più o per ottenere qualche “like“. 

E  per diseducare  preventivamente,  lavorando  contro  la nascita di una vera coscienza critica, prima che di classe, da osteggiare ad ogni costo. Non possiamo oggi non ricordare Pierpaolo Pasolini e i suoi “Scritti corsari“. Mentre le altre vittime e talune dinamiche più complesse e scomode, magari di mafia, scompaiono misteriosamente dalle scene. Forse sono poco moderne. E poi si potrebbero recuperare riferimenti morali, magari in qualche magistrato ucciso. Fuori da commemorazioni di convenienza. Fuori luogo. E il fatto che forse non tutto sia fascismo,  sessismo, razzismo, omofobia, violazione dei diritti umani da parte di torturatori di Stato non si può menzionare. Non si può dire che vi possono essere modi di vedere diversi (magari allineati ad una Costituzione sempre più strattonata ) che mettano in discussione qualunque nuovo paradigma, per sua   natura debole in quanto acritico, essenzialmente fondato sulla non conoscenza. Perché si viene attaccati senza che una sola voce si levi a difesa. Deve rientrare tutto in un cliché. Accettabile. Come quando si parla di istituzioni come la magistratura, senza menzionare la complessità delle questioni in gioco. Senza poter  menzionare  le tensioni  verso  interventi  di riforma funzionali rispetto al controllo. Il magistrato deve applicare la norma e basta. Senza sviluppare considerazioni, magari correlate ad un sistema giuridico complesso, di antica tradizione romanistica. Tante violenze di genere, tante condanne. Senza attardarsi troppo a pensare per contestualizzare i fatti. Non riconoscendo esecrabili circostanze attenuanti, pur previste. Mentre qualcuno dichiara che la pena  irrogata  è comunque lieve, perché i giudici odiano. Magari le donne. 

L’approccio nel comune sentire, sempre ben indirizzato, diventa tuttavia marcatamente diverso quando si tocchino altri interessi. Interessi preminenti. E allora l’approccio stesso diventa ben più articolato. Talvolta levantino, perdendosi nei distinguo. La dinamica rientra complessivamente in una sorta di progressismo   violento che nasconde la necessità di rafforzare la posizione di oggetti privi di ogni altro pregio, oltre a quello di portare avanti battaglie fittizie per gli artificiosi diritti di questo o di quello, in una società che nel frattempo si sfalda, tranne che per l’ipocrisia (la citazione viene dal testo geniale di Bret Easton Ellis, autore di American Psycho, “Bianco”). Mentre la stessa realtà diventa evanescente. Nascosta da statistiche oculatamente studiate    per occultare. Senza che mai si offra, soprattutto al Sud, la chance di una reale alternativa economica e culturale, unica strada verso la libertà. Quella vera. Non quella dei “ironisti”, ormai usciti dai loro format, automi dotati di vita propria in una immagine da incubo, lanciati fino a raggiungere vette impensabili, mantenendo però sempre i propri contenuti da illetterati. Ormai chi ha dedicato la vita  agli  studi  deve a  buon diritto considerarsi un reietto. Pericoloso. Si deve fare spazio all’altro che avanza. Forse il protagonista del   libro (solo per essere un sentimentale, sia chiaro) potrebbe   rimpiangere la levatura del presidente Aldo Moro, certamente ucciso da quattro balordi che si erano addestrati con le Scorpion nei boschi. Ebbene ci si potrebbe chiedere chi manipola questi volani del delirio. In Giglio di mare qualche domanda il protagonista se la pone, in modo perplesso e senza soluzioni. Un giudice che non accetta di schiacciare la coda al serpente, senza guardare alla testa. 

L’oggetto. Si fotografa sempre ciò che si sceglie di far vedere. Con il filtro della soggettività. Il protagonista del libro, un giudice poco orientato nelle cose e senz’altro poco realista, fotografa un primo piano della Sicilia. Talune ambientazioni con le quali un magistrato ( volendo e solo volendo)   può venire a contatto, in una realtà che si potrebbe dire non priva un qualche risvolto allucinato. Ma la memoria di talune stragi dal sapore troppo militare (stragi che tanto necessariamente presuppongono) riporta  nel testo alla  concretezza  delle cose, ove ci  si volesse cullare e proteggere, invocando di fronte alla Sicilia solo un proprio disagio psicologico. Al protagonista di Giglio di mare sembra d’altronde che il legame con l’isola sia per una vicenda vicina al proprio destino interiore. E in effetti per parlare di Sicilia si deve davvero scivolare verso  l’emotivo, l’intimistico, il  trascendente, perché la Sicilia non è nelle luci, ma nelle ombre, come ha detto il fotografo Ferdinando Scianna. E Valsi, un continentale, si lascia scivolare in percezioni non filtrate. Senza poterne più fare a meno, in una dimensione che volge allo squilibrio. Per capire una complessità che non si può afferrare fino in fondo con la ragione, perché mancano le prove, che però si avvertono tutte in una fitta alla base dello stomaco. Uno    dei significati del libro è d’altronde proprio l’omaggio a questa terra. Secondo Valsi, protagonista non privo di    qualche stranezza,  è terra  irredimibile  solo  per  precisi  equilibri imposti. Da congreghe di varia natura e non solo mafiosa in senso letterale (le strutture di peccato di cui parlava Papa Wojtyla); dall’esigenza di disporre di  un  bacino di voti determinante per ogni forza politica di governo; da istanze strategiche che si vanno riaffermando a fronte di una inedita politica dei nuovi blocchi. Qui non ci deve essere alternativa al vuoto, prima di tutto morale. Nessuna alternativa. 

Il linguaggio. In Giglio di mare un ostacolo è quello del linguaggio. Uno scritto non parla a tutti nello stesso modo. E’ la magia del linguaggio che si rivolge alla ricchezza di ciascuno, a mondi interiori dai colori mai uguali. Parole che in apparenza sembrano avere valore universale, mostrano di non averne in  realtà alcuno, nell’interpretazione filtrata da esperienze diverse. Così per una immagine. Una Cromadistrutta dopo l’esplosione che smembra una autostrada. Per Valsi è il simbolo della magistratura, nell’unico linguaggio proprio. Sapendo tuttavia che  ormai il linguaggio deve essere quello delle statistiche, quello della produttività   di fascicoli di moda. Migliaia di fascicoli per stalking. E così, solo nel testo ovviamente, anche per la magistratura si passa al linguaggio dell’ipocrisia, quello delle carte a posto, in funzione della sterilizzazione dell’azione. Se la mafia si è inabissata, secondo il protagonista di Giglio di mare, l’accordo è che non le si deve correre dietro. Si deve pensare ad altro. Mentre i latitanti diventano rifugiati, nelle rivisitazioni del potere. Mentre taluni giornali si fanno pubblicità invocando l’impegno nella lotta contro il giustizialismo. Certo un merito, forse un po’ a priori. Nel frattempo non si deve d’altronde ostacolare la corsa dei  flussi finanziari  che  non hanno colore politico né odore. Taluni flussi, tra gli altri, personalmente gestiti dai figli dei mafiosi che nel frattempo hanno proficuamente studiato in ottime scuole, non solo in Italia. Ne’ per un mero vincolo familiare si deve poter pensare a misure di prevenzione o interdittive, che secondo la migliore e più recente opinione   non possono certo fondarsi sulla stessa essenza della mafia: il vincolo familiare. Ma questo è un capitolo relativo ad altra giurisdizione. Le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ne’ si può limitare in modo inopportuno l’iniziativa economica. Si deve evitare di creare problemi ad operatori e concessionari che anzi   devono agire indisturbati nella gestione anche dell’aria, talvolta mostrando pubblicamente ottimi quanto  avvilenti  rapporti  con  chi invece avrebbe dovuto fare argine. La mafia siciliana tradizionalmente si nutre dei  rapporti con il potere. E’ la sua natura. Nel linguaggio di taluni la magistratura può essere poi felice strumento di controllo o peggio di persecuzione giudiziaria dell’avversario politico a seconda dei mutevoli equilibri, in vista di un bel trampolino per altro. Ma qui, purtroppo, si dovrebbero menzionare i complessi meccanismi dell’autogoverno che quest’anno sono stati illuminati in uno scorcio più che significativo. Senza che tuttavia nessuno, anche chi avrebbe dovuto, si sia strappato le vesti. Forse è sfuggito che l’episodio svela talune connotazioni di sistema. In altri tempi qualcuno avrebbe forse battuto il pugno sul tavolo. Magari con  la  pipa    in bocca, potrebbe pensare affettuosamente Valsi. Ma i tempi sono cambiati. Si sa.

L’anima. Un ultimo oggetto viene a fuoco tra le righe.

Il  protagonista di Giglio di mare, Andrea  Maria Valsi lotta per non perdere la propria anima. E’ un giudice   attrezzato professionalmente che ben comprende l’impatto delle norme e dei provvedimenti da adottare. Non da evitare. E sa bene che non potrà nascondersi. Almeno di fronte a se stesso. E’ parimenti ben consapevole che l’assoluta mancanza di realismo gli costerà cara. Ma l’alternativa non è proponibile. E per fortuna il cattivo   carattere offrirà una agevole spiegazione delle sue sventure nella carriera. Adeguarsi al nuovo modo di sentire,     alla logica dell’apparenza  per nascondere il calo di tensione  nella lotta o forse la definitiva perdita di ogni    credo, equivarrebbe d’altronde a tradire chi ha perso la vita servendo lo Stato. E lo Stato, secondo Valsi, non può restare senza anima per vincere una battaglia che forse è sospesa. Ma che da qui, solo dalla Sicilia,   dove tutto inizia, può riprendere. Senza sconti. Mirando alla testa. Del serpente.

O forse tutto questo è solo frutto di alterazione nella mente di un protagonista che non accetta di lasciarsi andare al realismo, al vuoto, sullo sfondo della decadenza di una società, mentre ripete fra sé e sé una poesia di Charles Bukowski:ci sono persone che non impazziscono mai. Che vite davvero orribili devono vivere.”

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