La scarpa dell’assassino, il movente economico e gli alibi falsi: i retroscena dell’omicidio Miceli
Miceli, marmista del paese, è stato ucciso il 6 dicembre 2015 a Cattolica Eraclea. Per il delitto è stato condannato a 24 anni l’operaio Gaetano Sciortino: ecco perchè
Il movente dell’omicidio è di natura economica. Prima il furto di una valigetta con degli attrezzi di valore e poi una rapidissima escalation di violenza culminata con una rapina finita nel sangue. Ne sono convinti i giudici della Corte di assise di appello di Palermo che, negli scorsi giorni, hanno depositato le motivazioni della sentenza con la quale hanno inflitto 24 anni di reclusione a Gaetano Sciortino, 61 anni, operaio di Cattolica Eraclea, condannato per l’omicidio di Giuseppe Miceli, artigiano del paese, massacrato all’interno del suo laboratorio la sera del 6 dicembre 2015.
Il movente è il vero elemento di novità rispetto ai tre processi finora celebrati. L’ipotesi di una rapina finita male fino ad oggi non era mai stata pienamente sposata, neanche nella fase di emissione della misura cautelare nei confronti dell’operaio. Gaetano Sciortino viene condannato in primo grado a 24 anni di reclusione (la procura di Agrigento aveva chiesto l’ergastolo). In appello, invece, il ribaltone: assolto per non aver commesso il fatto. Proprio i giudici di secondo grado non avevano creduto anzitutto al movente economico valorizzando invece l’alibi fornito dalla moglie dell’imputato che aveva dichiarato che il marito si trovasse in casa la sera del delitto. La Corte, inoltre, aveva dichiarato “incompatibile” la prova regina del processo: la scarpa indossata dall’assassino, rinvenuta in una discarica dodici mesi dopo l’omicidio, era di taglia più grande rispetto al piede dell’operaio. Un altro colpo di scena si registra con la decisione della Cassazione di annullare l’assoluzione di Sciortino e disporre così un nuovo giudizio davanti ad altra Corte di assise di Appello che, tre mesi fa, ha appunto condannato a 24 anni l’operaio di Cattolica Eraclea. Oggi, attraverso le motivazioni depositate, si può capire il perchè di tale decisione.
Ecco cosa scrivono i giudici
“Ludopatico e bisognoso di denaro contante, lo Sciortino aveva seguito l’amico Miceli, con cui condivideva l’ossessione per il gioco d’azzardo, tutta la mattina del 6 dicembre 2015; quindi, sicuro che la vittima fosse al bar Europa, si era introdotto nel suo ufficio tra le 12 e le 12.30, alla ricerca di soldi che non aveva trovato: cosi gli aveva sottratto degli attrezzi da lavoro del valore di oltre 800 euro. Resosi conto che la ricettazione di tali strumenti non sarebbe stata né sicura, né agevole, né rapida, l’imputato decideva di ritornare quella sera stessa nella casa del Miceli, in cerca di contanti (il Miceli aveva ritirato la pensione i primi giorni del mese). Che sia stato lo Sciortino a tornare a casa della vittima ed a porre fine alla sua vita in modo violento, fracassandogli il cranio con gli strumenti da lavoro è dimostrato: dalle false dichiarazioni sue e della moglie circa i movimenti della mattina del 6 dicembre 2015 relative sia al negato pedinamento, sia al negato furto della valigetta del Miceli nonché al falso alibi per la sera dell’omicidio quando, certamente, l’uomo non si trovava in casa insieme alla moglie; dal tentativo, aiutato dai figli, di distruggere gli strumenti da lavoro sottratti la mattina dell’omicidio alla vittima, al cui ritrovamento, di contro, sottoposto il nucleo familiare a intercettazione e monitoraggio con gps, erano proprio i familiari dello Sciortino a condurre direttamente gli inquirenti; dal tentativo di recuperare e distruggere definitivamente le scarpe indossate durante l’omicidio con l’escamotage – precostituito, sapendo di essere intercettato – di recarsi alla ricerca di lumache, e così conducendo, ancora una volta, gli inquirenti, alla scoperta di una delle calzature dell’assassino, verosimilmente gettate in discarica dai figli dell’imputato nell’agosto precedente, contestualmente al tentativo di distruzione degli strumenti sottratti alla vittima. È quindi lo Sciortino, insieme ai suoi familiari, a condurre gli inquirenti a rinvenire il corpo del delitto del furto della mattina del 6 dicembre 2015 ed una delle due scarpe da costui indossate la sera dell’omicidio. A tale riguardo, la difesa ha sostenuto che sarebbe irrazionale pensare che lo Sciortino avesse scientemente condotto gli investigatori in discarica, sapendo di essere monitorato. In realtà, come evidenziato, l’imputato era consapevole che la Fiat 500 utilizzata il 2 ottobre 2016 avesse una cimice, ma non di essere seguito tramite Gps. Ragion per cui, l’uomo aveva scientemente usato l’auto intercettata per convincere gli inquirenti, parlando da solo, del fine ludico che si era prefissato (la ricerca di lumache), così giustificando il suo inusuale allontanamento dall’abitazione all’alba di quella domenica d’ottobre. La difesa ha poi sostenuto che se davvero l’imputato avesse voluto cercare scarpe, si sarebbe recato in contrada Giaimo di notte, coendo del favore delle tenebre, in modo tale da non attirare sospetti. In realtà, anche a tale osservazione, è facile obiettare che la ricerca notturna sarebbe stata alquanto difficile, se non impossibile, per l’imputato, in un luogo non illuminato, quale la discarica di contrada Giaimo, ubicata in aperta campagna. Ad avviso della difesa lo Sciortino non avrebbe, poi, avuto alcun motivo, laddove fosse stato alla ricerca della calzatura, di accendere e spegnere il veicolo per ben tre volte, a distanza di pochi minuti l’una dall’altra, ingenerando, così ulteriori sospetti negli investigatori. Anche in questo caso è logico obiettare che non sono state le soste in sé ad attirare i sospetti degli investigatori, ma la loro ubicazione, sempre nella medesima area della discarica, rilevata non con le intercettazioni ma col Gps. L’imputato, dunque, giacché consapevole della localizzazione della sua auto da parte dei carabinieri, non avrebbe avuto alcun motivo di preoccuparsi di fare le tre soste che, a suo avviso, ben poteva giustificare con la scusa di andare a lumache, salvo il fatto che il Gps aveva permesso agli investigatori di capire che il luogo ove si era fermato non era assolutamente compatibile con la declamata ricerca. Ancora, la difesa ha ritenuto del tutto illogica la scelta di Sciortino di gettare, invece che bruciare, le scarpe indossate la sera del delitto. Anche a tale osservazione è logico obiettare che evidentemente i figli di Sciortino – delegati dal padre a tale scopo, come emerso dall’intercettazione del 20 settembre 2016 – avevano ritenuto che per liberarsi delle scarpe bastasse gettarle in una discarica. Tale ultima convinzione non si appalesa affatto né irrazionale, né peregrina, giacché se lo Sciortino non si fosse successivamente recato a cercare quelle scarpe, nessuno mai avrebbe potuto ricollegare la calzatura effettivamente rinvenuta in discarica a lui. Parimenti, il fatto di essersi recato in discarico dopo 12 giorni dall’iscrizione nel registro degli indagati, segna il limite tra una condotta che sarebbe stata troppo imprudente e tale da attirare sospetti negli investigatori, se posta in essere subito dopo il 20 settembre 2016 (quando lo Sciortino aveva subito la prima perquisizione alla ricerca delle scarpe), ed una condotta sufficientemente tempestiva per il loro recupero. Infine, alla tesi difensiva dell’illogicità del tentare un’azione di recupero in discarica, scegliendo come punto di sosta un’area distante 50-80 metri, è razionale obiettare che proprio tale distanza – avrebbe potuto spezzare il nesso tra le ragioni della sosta e la ricerca della scarpa dell’assassino. Nesso che, all’evidenza, non si è spezzato, in ragione dell’effettivo ritrovamento della calzatura. Gli alibi falsi dello Sciortino e quelli precostituiti con la moglie, non fanno altro che chiudere il grave quadro indiziario a carico dell’imputato, giacché non risulta alcuna giustificazione alternativa del loro mendacio.”