Agrigento

“Mazzarò” di Guarneri riscuote successo al Teatro Pirandello di Agrigento

Enrico Guarneri è sempre immenso e, bontà sua non nostra, è diventato la colonna portante del “teatro”.

Pubblicato 1 anno fa

Chissà perché Giovanni Verga fa “paura” al Nord visto che la piattaforma ministeriale Sofia impedisce il collegamento con le celebrazioni per il centenario della morte dello scrittore siciliano che si tengono a Catania. Se ne lamentava giorni fa  un insegnante di Bolzano nella rubrica “lettere” del quotidiano Repubblica.  Francamente non vorremmo che si trattasse della abominevole “cancel culture” in uso in alcune università americane e il nostro ministero farebbe bene ad appurare questo diktat che inserito in una Italia a sovranità limitata ci farebbe sentire ancora più “vinti”.

Intanto Enrico Guarneri porta sulle scene il “vinto” Mazzarò, anzi uno strano tipo di “vinto” che è anche “vincitore” e che perfino si costruisce una sua “Norimberga” in un finale epico shakespeariano con nenie siculo-arabe che rimbombano  su un  Mazzarò  rantolante sotto un tronco di  ulivo, l’unico a invocare pietà  coi suoi rami protesi al cielo. Dopo i “Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo” non poteva che essere il Teatro di Catania a completare la  trilogia verghiana anche con la regia di Guglielmo Ferro  figlio del grande Turi che con “La roba” rafforza un albero genealogico di tutto rispetto.

Un testo, quello verghiano, che proietta e perpetua fino ai nostri giorni  i fallimenti esistenziali di una condizione umana senza Dio, patria e famiglia, un trinomio sconosciuto dal Mazzarò tutto appagato dal possesso di una “roba” accumulata grazie alla sua capacità e ambizione.  E se questa sia una esplicita parabola evangelica che suggeriva di non accumulare tesori sulla terra, cos’altro può essere? Fin dall’inizio, l’adattamento di Ferro replica l’incipit favoloso della novella verghiana che poi si dipana in bozzetti campestri, piccoli drammi rurali, sottomissioni padronali in un cosmo miserabile dove Mazzarò appare e scompare come manager, kapò, strozzino, fustigatore e tenutario di anime e di corpi assoggettati e crocifissi in una indifferenza che a tutti  costerà cara negli anni avvenire.

Illusorio perfino il modello di “ascensore sociale” di Mazzarò  che profetizza drammaticamente “l’ascensore sociale” di oggi bloccato in una innominabile “lotta di classe” che non fa né vinti né vincitori. Aristocrazia e nuova azienda borghese, sta forse qui la paura e l’incomprensione di un nord utilitaristico verso un laboratorio “sudista” che attraverso i suoi grandi scrittori, (guarda caso tutti siculi) elabora politiche sociali di denuncia e di possibili trasformazioni sociali sprecate poi  da politici ottusi  di ogni versante politico. E che dire di Enrico Guarneri? E’ sempre immenso e, bontà sua non nostra, è diventato la colonna portante del “teatro”. Tout court.

Foto di Diego Romeo

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