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Campobello di Mazara Citta-Stato e Messina Denaro il suo sovrano

di Maristella Panepinto

Pubblicato 1 anno fa

A volere azzardare un paragone colto, viene subito da pensare che gli undicimila abitanti del comune trapanese abbiano agito come sudditi ubbidientissimi di un sovrano d’anti-stato. Spiegare così la latitanza di un super boss però sarebbe liquidatorio.

La vicenda è assai più complessa ed a comprenderla ci aiutano le nostre fonti investigative vicinissime agli ambienti trapanesi.

È vero, Messina Denaro ha potuto contare sulla connivenza di una fetta importante della sua gente, quella del territorio che da Castelvetrano arriva fino a Campobello, due comuni che si distanziano giusto una manciata di km. La stessa famiglia del boss è originaria di Campobello, lì è sempre stata di casa.

Ci sono stati i complici strettissimi, un paio di nomi sono già noti come indagati, molti altri potrebbero spuntare presto, tra questi aleggia anche quello di un oncologo.

Così come si attendono le manette ai polsi dei fiancheggiatori. Il primo è stato già preso: Andrea Bonafede, il geometra di Campobello di Mazara che ha prestato l’identità al boss Matteo Messina Denaro. Sarebbe un uomo d’onore riservato.

Lo scrive il Gip nella misura cautelare odierna: “Si è in presenza, in sostanza, sia pure, in termini di gravità indiziaria di un’affiliazione verosimilmente riservata di Bonafede per volontà del Messina Denaro”.

Per gli altri è solo questione di giorni, probabilmente pochi.

C’è stata anche una fetta di cittadinanza connivente nell’incolpevolezza.

In quel territorio il clima è pesante, è chiaro che il vecchietto con la coppola, che a malapena inanella due parole di italiano corretto, possa aver deciso di farsi i fatti suoi per paura, per mentalità, senza una valida ragione.

C’è poi la domanda collettiva: “Perché chi deve garantire la legalità in questi luoghi, non si sia accorto di nulla? I vigili urbani, i carabinieri del locale comando, il primo cittadino?”

Possibile che a tutti, come dichiarano i più, sindaco compreso, sia sfuggito quel sessantenne modaiolo, che gironzolava solitario tra le vie del centro, per i negozi, per gli studi medici e anche in qualche ristorante.

Poco probabile, racconta la nostra fonte, ma non impossibile. Parliamo di paesini che in questi anni sono stati super controllati. Retate, perquisizioni, arresti, quel “cerchio stretto intorno al boss”, che però pareva non chiudersi mai. Ecco, in questi posti, per paradosso, anche fare una “banale” perquisizione richiede una trafila di permessi tali, che alla fine il ricercato ha il tempo di defilarsi.

Basta “quel tanto così”, che arriva il complice giusto e tutta va in aria.

Perché nella vita vera, non é come nei film, dove l’investigatore ha un sospetto, riceve una soffiata e irrompe in una casa. Nelle indagini reali ci vogliono i permessi, le verifiche, la legge italiana prevede questo.

Ci sarebbe stata anche una segnalazione ai Carabinieri di Campobello di Mazara. Nel novembre del 2021 una fonte confidenziale avrebbe sussurrato di un avvistamento del boss, aggiungendo che c’era una rete di pesci grossi a proteggere un uomo ormai invecchiato, dimagrito, cambiato, rispetto alle identikit dei tempi d’oro.

 Quel che è (quasi) certo è che Messina Denaro bivaccava a Campobello di Mazara da tempo, pare addirittura dal 2019, nell’acquiescenza di molti, anche di chi non avrebbe assolutamente  dovuto.

Quattro anni circa, in cui il boss avrebbe anche avuto modo di intrecciare un legame sentimentale stabile, sul quale gli investigatori stanno indagando, a partire da tracce biologiche e abiti femminili, rinvenuti in una delle abitazioni, etichettate come “covo” del boss.

“Non lo avrà coperto direttamente la gente onesta,  che a Campobello esiste, non ci sono dubbi.” Dice la nostra fonte.

Campobello di Mazara è difatti anche terra di gente comune: piccoli proprietari terrieri, lavoratori stagionali di vigne e uliveti, disoccupati (tanti), percettori del reddito di cittadinanza (il 30% delle famiglie ne ha fatto richiesta).

Così come tra Campobello e Castelvetrano esiste anche una roccaforte della massoneria, tre logge, di cui due solo nel paesino dove il boss avrebbe vissuto negli ultimi anni.

Uno degli indagati, il dottore Tumbarello – di fatto il medico curante di Messina Denaro, alias Andrea Bonafede –  risulta iscritto nella loggia locale (dalla quale è stato sospeso alla notizia dell’atto di indagine nei suoi confronti) da molto tempo. Non è il solo, ci sarebbe anche il nome di un urologo, che ha avuto in cura Messina Denaro e che da tempo militava negli ambienti del Grande oriente d’Italia.

Sui legami tra mafia e massoneria si indaga da tempo.

Nel 2008 vi fu un’operazione, Hiram, diretta dalla Dda di Palermo e condotta dai Carabinieri di Trapani, che ha stretto le manette ai polsi a otto esponenti massoni, accusati di essere un ponte tra la mafia e le istituzioni. Gli arresti si articolarono tra Trapani, Palermo, Agrigento e l’Umbria.

Tra le accuse c’era anche quella di aver “aggiustato” le cose nei Palazzi di Giustizia, di avere allungato i tempi dei processi, così da favorirne la prescrizione. In manette finirono politici, imprenditori, un medico, una poliziotta, un impiegato di Cassazione. I cinque che arrivarono a processo, furono tutti assolti.

Una maglia stretta, quella dei legami tra mafia e massoneria, che però si fa difficoltà a districare. Una rete di cui parla Gaspare Mutolo, capomafia palermitano diventato poi collaboratore.

Mutolo avverte che i nodi più stretti della vicenda Messina Denaro vanno ricercati proprio in questi intrecci, tra la mafia che sparava e spaventava e il ponte d’oro con le logge massoniche, fatto di facciate pulite, di uomini borghesi, di “gente perbene”. Ed è Mutolo che afferma: “La centrale della massoneria è in Sicilia. Solo nel trapanese vi sono 11 logge ed altre 11 nell’agrigentino, sei delle quali nel territorio del Belice, zona di influenza di Matteo Messina Denaro.”

Una teoria che confermerebbe tante cose.

L’appeal strategico di Messina Denaro, che dopo l’epoca delle stragi, ne avvia un’altra “diplomatica”, imborghesita,  che potrebbe essere stata sostenuta, e bene, in ambienti massonici. Messina Denaro aveva un progetto: creare una rete imprenditoriale, che colleghi tra loro le mafie italiane, così da rafforzarle. Eccolo fare ponte con gli ‘ndranghetisti,  con i Mancuso, esponenti di spicco della mafia calabrese. Lo conferma un’intercettazione. É la conversazione tra due uomini del clan di Nicotera. Parlano di Messina Denaro come di uno “buono”, inteso come mafioso di spessore. Che certo ha sbagliato a fare le stragi, ad ammazzare “quei poveri giudici”, ma che ora fa le cose perbene.

Il riferimento è alle grosse mire imprenditoriali, che vanno oltre la Sicilia, con Messina Denaro alla regia di opere miliardarie. C’era nei progetti un grosso complesso turistico a Capo Vaticano, in provincia di Vibo Valentia, dove Cosa Nostra e ‘Ndrangheta avrebbero di fatto provveduto a investire il 40% delle quote. Probabile che un pezzo di latitanza, Messina Denaro l’abbia fatta proprio in Calabria, dove ai boss/amici avrebbe suggerito una strategia mafiosa del “sottotraccia”. Per spegnere i riflettori sulla criminalità organizzata è bene evitare crimini di superficie. Niente omicidi, niente attentati, no alle intimidazioni, si limitazione del racket, soprattutto in considerazione dei nascenti movimenti contro il pizzo. Un cambio di marcia che vede un passaggio dalla mafia che ammazza a quella che fa impresa e che si sviluppa in tutta Italia e anche oltre il confine. La mafia del turismo di lusso, delle energie alternative, delle imprese agricole di ultimissima generazione.

Una mafia che necessita di fiancheggiatori eccellenti, di professionisti, di quei famigerati “colletti bianchi”, che operano su tutti i fronti e a tutto campo. Una mafia che si collega alla massoneria, come paventa Gaspare Mutolo. Altroché campagnoli e vivandieri di paese.

Campagnolo era sì stato don Ciccio Messina Denaro, papà del boss, l’uomo che al piccolo Matteo aveva insegnato il “mestiere”. Don Ciccio era campiere nelle tenute di proprietà della famiglia di Antonio D’Alì. Salvatore, il fratello di Matteo Messina Denaro era invece impiegato alla Banca Sicula, che girava negli affari del deus politico trapanese. Lui, l’uomo di Forza Italia, amico di Berlusconi, senatore della Repubblica dal 1994 al 2018, sottosegretario al Ministero dell’Interno dal 2001 al 2006. D’Alì è in carcere dal dicembre scorso. Si è costituito al penitenziario di Opera, Milano, per scontare i sei anni della condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Su D’Ali parla la moglie d Fulvio Sodano, prima prefetto di Trapani e poi di Agrigento.

In una lettera pubblicata nel 2006 da Grandangolo e “L’Espresso”, Maria Sodano parla del marito come di un eroe non riconosciuto. Che ha lottato la mafia nelle terre del padrino e che è stato trasferito sul più bello, quando D’Alí era sottosegretario agli Interni e  mentre il prefetto si sbracciava per fare andare avanti e bene la Calcestruzzi ericina, un’impresa sequestrata al boss Virga. Quella misura di prevenzione aveva fatto furore nel trapanese e Sodano, buon uomo di Stato, voleva dimostrare che anche senza l’egida mafiosa, le imprese potevano lavorare bene. La vedova Sodano, che pure riconosce nella recente cattura il merito dei Carabinieri e dei magistrati caparbi, si chiede se sia una coincidenza che il superlatitante, sia stato arrestato a un mese esatto dalla carcerazione del politico, che ne fiancheggiava le azioni mafiose.

Lancia un invito a fare chiarezza. A cercare bene dove si deve.

I riferimenti alla politica e alla massoneria sono chiari.

Intanto gli investigatori setacciano ogni centimetro delle abitazioni dove é passato Messina Denaro. Scandagliano tra i contatti diretti e mediati. A breve potrebbero saltare fuori i nomi degli altri fiancheggiatori e non è escluso che qualcuno di questi possa essere un nome eclatante.

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