Il Giudice che non volevano farci vedere
A chi ha voltato le spalle, a chi lo ha ignorato, a chi ha lasciato che fosse solo: l’immagine di quel corpo dice “Ricordati”. A chi oggi lavora nei tribunali, nelle redazioni, nei parlamenti, nei vicoli: “Decidi da che parte stai”. A chi parla di legalità, ma vive di ambiguità: “Guardati allo specchio”.
Il corpo del beato Rosario Livatino è stato svelato. Dentro una teca di vetro, in una chiesa che profuma d’incenso e di curiosità, forse più che di fede. Il volto ricomposto in una maschera di silicone. Qualcuno tra quelli che ha lavorato alla ricomposizione del corpo ha voluto mettergli una toga da magistrato. È un’esposizione solenne, definita con espressione liturgica “delle insigni reliquie”. Ma è anche, in modo inevitabile e forse provocatorio, un’esposizione pubblica. Una rivelazione. Un atto che inchioda lo sguardo di chi guarda e mette a disagio, anche quando non lo si ammette.
Perché Rosario Livatino, da vivo, non era mai stato così. Non era mai stato esposto. Era, anzi, l’opposto dell’esibizione. Non rilasciava interviste, non scriveva articoli, non si lasciava fotografare. Parlava piano, spesso con lo sguardo basso. Andava a piedi in tribunale. Non accettava scorte. Non cercava applausi. Non chiedeva visibilità. E forse per questo, mentre viveva, molti non lo vedevano affatto.
Ora è lì. Il suo corpo. Un corpo giovane, trafitto da proiettili mafiosi in una mattina di settembre del 1990, su una strada sporca di polvere e sangue. Un corpo ricomposto dopo decenni di silenzi e riabilitazioni postume, oggi mostrato come segno di santità e giustizia.
C’è chi ha storto il naso. Chi ha parlato di spettacolarizzazione del martirio, di culto del corpo, di eccesso di devozione. C’era pure un prete, occhiali da sole e camminata scoordinata e pesante, che pareva essere il protagonista di quell’evento (Livatino se ne sarebbe andato volentieri). La perfetta antitesi alle parole di Papa Leone XIV che durante il suo primo Regina Coeli ha detto «È importante che i giovani e le giovani trovino, nelle nostre comunità, accoglienza, ascolto, incoraggiamento nel loro cammino vocazionale, e che possano contare su modelli credibili di dedizione generosa a Dio e ai fratelli»
Eppure quel corpo in vista non è un trofeo né un feticcio. È uno specchio. Rende visibile ciò che, in vita, tanti hanno scelto di ignorare. Perché Livatino, ricordiamolo, non fu solo ucciso. Fu prima lasciato solo. Calunniato, deriso, isolato. I suoi colleghi lo chiamavano con sufficienza “il santocchio”. I potenti lo temevano. I cinici lo schernivano.
La mafia lo vide come un capro espiatorio, lo uccise per dimostrare potenza. Ma prima ancora che lo uccidessero fisicamente, lo avevano ucciso moralmente. Ecco perché, ora, quel corpo in una teca è una provocazione potente. Parla senza voce a chi allora si voltava dall’altra parte. Parla a chi oggi lo esalta, ma ieri lo avrebbe disprezzato. Parla a una società che premia l’ambiguità, che tollera la corruzione, che guarda con sospetto chi è davvero integro.
In quell’esposizione c’è un ribaltamento. Chi in vita si teneva nascosto per pudore e timore di Dio, oggi è mostrato come luce per le nazioni. Chi era invisibile per scelta, ora diventa visibile per necessità. Perché questo corpo non è solo il corpo di un uomo. È il corpo della giustizia che resiste. Della verità che non si piega. È l’icona di ciò che ci manca.
Rosario Livatino è stato beatificato come “martire della giustizia e della fede”. Ma la beatitudine non lo ha separato dalla storia. Al contrario, ce lo restituisce in carne e ossa. Ce lo restituisce così com’era: piccolo, serio, ostinato, vulnerabile. Il suo corpo esposto non è un atto di trionfo, ma di memoria attiva. Sta lì a giudicarci, tutti.
A chi ha voltato le spalle, a chi lo ha ignorato, a chi ha lasciato che fosse solo: l’immagine di quel corpo dice “Ricordati”. A chi oggi lavora nei tribunali, nelle redazioni, nei parlamenti, nei vicoli: “Decidi da che parte stai”. A chi parla di legalità, ma vive di ambiguità: “Guardati allo specchio”.
Perché quel corpo fermo nella teca ha più forza di molti discorsi. Non urla, ma interroga. Non si muove, ma inchioda. Non accusa, ma inquieta. È un muto giudice del nostro tempo, e della nostra codardia.
Esporlo non è un atto sacro fine a sé stesso. È un atto politico, etico, civile. È la denuncia del nostro bisogno di esempi veri. È la testimonianza che si può essere giusti e restare fedeli, anche quando costa la vita.
Forse, tra cento anni, qualcuno si chiederà perché abbiamo voluto vedere così da vicino quel corpo. La risposta, se avremo il coraggio di darla, dovrà essere questa: perché ci ricorda chi avremmo potuto essere, e chi abbiamo preferito non essere.
E, forse, da lì, ripartire.