Agrigento

Processo “Vultur”, depositate motivazioni: Saro Meli è boss; emersi tentativi di condizionare testimoni

E’ stata depositata la sentenza integrale con annesse motivazioni emessa dal Tribunale di Agrigento (presidente del collegio Luisa Turco, con a latere i giudici Enzo Ricotta e Rosanna Croce, estensore) e 6 mesi nei confronti di Rosario Meli, alias “u puparu”, riconosciuto dunque capo della famiglia mafiosa di Camastra; 14 anni e 6 mesi per […]

Pubblicato 6 anni fa

E’ stata depositata la sentenza integrale con
annesse motivazioni emessa dal Tribunale di Agrigento (presidente del collegio
Luisa Turco, con a latere i giudici Enzo Ricotta e Rosanna Croce, estensore) e
6 mesi nei confronti di Rosario Meli, alias “u puparu”, riconosciuto dunque capo della famiglia mafiosa di
Camastra; 14 anni e 6 mesi per il figlio Vincenzo mentre 13 anni e 6 mesi sono
stati inflitti al tabaccaio del paese Calogero Piombo ritenuto il cassiere
della famiglia mafiosa di Camastra.

Condanna
anche per Lillo Di Caro, esponente
di rilievo della mafia di Canicattì,
a cui sono stati inflitti 22 anni in continuazione e che assorbe dunque le
condanne a 14 anni nel procedimento “Alta
Mafia”.

L’inchiesta
Vultur è stata condotta dal
personale della Squadra mobile di
Agrigento
diretto da Giovanni
Minardi
. I poliziotti, partendo dall’omicidio del palmese Giuseppe Condello e del suo giovane
autista, Vincenzo Priolo aprirono un
filone investigativo su Meli e Di Caro divenuto processo ed oggi
condanna. L’accusa era rappresenta in aula dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale
antimafia Alessia Sinatra.

Nelle
179 pagine che spiegano le ragioni della condanna particolarmente pregnanti
sono quelle che riguardano Saro Meli.

Scrivono
i giudici: “Ora, relativamente alla posizione di Meli Rosario e Meli Vincenzo, si è già evidenziato che gli stessi
risultano già rispettivamente condannati con la sentenza della Corte di Assise di Agrigento del 28/3/1996,
alla pena di anni undici di reclusione e anni cinque di reclusione per il reato
di cui all’art.416 bis Cp, con il ruolo di dirigente il Meli Rosario, nonché per quello di tentata estorsione ai danni di Marra Alberto da Camastra.

Dalla
lettura della motivazione di tale sentenza emerge che Meli Rosario, detto “u puparu” è stato ritenuto
elemento di spicco dell’associazione per delinquere di stampo mafioso operante
nel territorio della provincia di Agrigento
e in particolare  quale esponente di
spicco della consorteria mafiosa c.d.”stiddara” operante in Camastra.

In tale
illecita attività egli è stato coadiuvato dal figlio Meli Vincenzo, parimenti condannato 
con la stessa sentenza. Dalla medesima sentenza e dalle ulteriori
sentenze prodotte nel presente procedimento, emerge altresì che l’associazione
per delinquere denominata “Stidda“,
è stata solo per un periodo contrapposta a “Cosa nostra” in provincia dì Agrigento, condividendone in realtà ì contenuti e le finalità, i cui
componenti peraltro ambivano di essere ammessi proprio nella “Cosa nostra” agrigentina (dichiarazioni rese da Benvenuto G. Croce e Calafato Giovarmi in quel
procedimento).

Ora, la
contestazione relativa a quel procedimento, la cui sentenza è divenuta
irrevocabile, è relativa al periodo “fino al febbraio 1993”, mentre
la contestazione di cui al capo A) del presente procedimento ha come termine
iniziale proprio la detta data, essendo coperta da giudicato la condotta
consumata nel periodo precedente alla condanna.

L’oggetto
del presente accertamento, pertanto, consiste nel protrarsi dell’appartenenza
di Meli Rosario, con il ruolo di capo, e di Meli Vincenzo, con il ruolo di partecipe, all’associazione mafiosa
operante in Camastra, già accertata
con sentenza passata in giudicato fino al febbraio 1993, a nulla rilevando a1
riguardo l’accertata appartenenza alla ”Stidda” dei predetti Meli, in quanto, come già detto, la ”Stidda
è stata contrapposta a “Cosa nostra”
nel territorio della provincia di Agrigento
soltanto per un periodo, a causa dell’insorgere di contrasti interni, ma ne ha
condiviso le finalità e i metodi operativi.

Ora, per
consolidata giurisprudenza, l’adesione ad una associazione per delinquere di
stampo mafioso comporta tendenzialmente l’indissolubilità del vincolo di
fedeltà, con l’insorgenza per effetto dell’affiliazione, di rapporti tra
associati che possono essere interrotti soltanto con lo scioglimento del
vincolo associativo, ovvero con il recesso volontario del singolo che, deve
essere accertato caso per caso, in virtù di condotta esplicita,  coerente 
e i conseguenza, la precedente condanna degli imputati per il reato dì
cui all’art. 416 bis C.P. non costituisce elemento neutro ai fini della prova
della condotta oggi oggetto di valutazione, dovendo astrattamente ipotizzarsi
alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato che anche
successivamente al periodo oggetto del precedente giudicato gli imputati
abbiano continuato a far parte della famiglia mafiosa di Camastra, con il ruolo di capo Meli
Rosario
e di partecipe Meli Vincenzo.

Ora,  gli elementi 
acquisiti  nel  corso 
del dibattimento  consentono  di ritenere 
fondata l’ipotesi accusatoria, emergendo la prova del protrarsi della
loro condotta di partecipazione alla famiglia mafiosa di Camastra, in qualità di ”capo” Meli Rosario e dì partecipe Meli
Vincenzo.

In
particolare elementi di prova in tal senso emergono dalle intercettazioni
trascritte con perizia nel corso del dibattimento, nonché dagli elementi
esaminati circa la commissione di delitti scopo da parte degli odierni ìmputati,
quali la tentata estorsione ai danni di De
Marco e Forti,
i delitti concernenti le armi dì cui, i contatti di Meli Rosario con esponenti della
famiglia mafiosa dì Canicattì e con
il suo capo Di Caro Calogero, al fine
di regolarizzare la gestione di un’attività di impresa e in particolare della
discoteca denominata “Link8“,
tutti idonei a dimostrare il perdurante coinvolgimento degli odierni imputati
nelle dinamiche criminali dell’associazione di stampo mafioso.

Anche
con riferimento  al reato di cui al capo
A) della rubrica, va osservato che i testi della difesa esaminati al
dibattimento non hanno riferito circostanze idonee a sminuire i sopra indicati
elementi dì accusa, dovendosi per converso evidenziare che si sono registrati
nel corso dell’istruttoria dibattimentale episodi che lasciano ragionevolmente
ritenere il condizionamento di taluni testi, che assai frequentemente hanno
dichiarato di non ricordare le circostanze che venivano loro richieste, negando
quanto dichiarato dinanzi gli organi di P.G. e che in un caso sono stati
sorpresi dopo l’udienza  in cui avevano
reso testimonianza a dialogare con i familiari degli imputati, tra i quali Meli Rita, peraltro citata quale teste
dai difensori, ancora da assumere a quella data (v. teste Barbara Calogero all’udienza del 13/12/2017, nonché esame reso sul
punto dal teste Minardi  Giovanni 
all’udienza  del28/3/2018).

Infine, le risultanze processuali non hanno consentito
di ritenere provato l’interessamento della famiglia mafiosa alle elezioni
amministrative del giugno 2013, avuto riguardo al supporto fornito al candidato
sindaco Angelo Cascià, anche attraverso condotte intimidatorie nei confronti di
altri candidati, così come contestato.

Invero,
tra le intercettazioni significative ai fini 
della  prova  della 
continuità dell’adesione al sodalizio, va menzionata quella del 6/4/2013
all’interno della sala colloqui della casa
circondariale Petrusa
ove Meli Rosario si trovava detenuto, nel corso
della quale il predetto parlando con i figli Meli Rita e Meli Calogero
manifestava compiacimento per il ”rispetto” che gli veniva mostrato,
definendosi “capomafia” e suscitando le reazioni dei figli”.

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