Sulla imparzialità ed indipendenza del magistrato: le riflessioni del procuratore Patronaggio
Le considerazioni di Luigi Patronaggio, ex procuratore di Agrigento ed attuale procuratore generale di Cagliari, sulla imparzialità ed indipendenza del magistrato
di Luigi Patronaggio
Partendo da una molto nota, ma altrettanto molto disattesa, citazione del beato Livatino secondo cui “il magistrato oltre che essere deve anche apparire indipendente”, mi sia permessa, senza alcuna pretesa di scientificità, qualche considerazione sul tema.
Osservo, innanzitutto, che è irrealistico, oltre che ipocrita, pensare che il magistrato, così come il carabiniere, il poliziotto, il medico e finanche il sacerdote, non abbiano proprie convinzioni politiche.
La legittimità delle proprie convinzioni politiche, in uno stato che si fonda sulla Costituzione e sulle principali carte fondamentali riconosciute dall’Italia, trova il proprio limite nel non rinnegare, o peggio avversare, i principi fondamentali di tali carte. Così, per fare un esempio banale, non sarebbero legittime le idee politiche che non riconoscessero l’uguaglianza fra gli esseri umani, che inneggiassero al nazismo, allo stermino delle minoranze, o ancora, che facessero proprie le idee sul sovvertimento violento e terroristico delle istituzioni democratiche. Entro tali limiti ogni idea politica è assolutamente legittima ed altrettanto legittima è la sua pubblica manifestazione. Sostenere la legittimità tout court di ogni e qualsiasi idea politica, anche di quelle violente e discriminatorie, è un esercizio retorico che lasciamo volentieri alle belle menti filosofiche ma che non è accettabile in un sistema di civile convivenza regolato da leggi democraticamente adottate. Ammettere il contrario significherebbe aprire le porte della società al caos distruttivo.
Vi sono, tuttavia, diverse categorie di soggetti che, per le loro pubbliche responsabilità e per le conseguenze che possono derivare dalle loro esternazioni, non possono in alcun modo palesare le loro opinioni politiche.
In tal senso, invero, non vi è un divieto assoluto di legge anche se la Costituzione all’art. 98 vieta a talune categorie di pubblici funzionari l’iscrizione a partiti politici. Gli atti interni che regolano il funzionamento di molte professioni indicano, inoltre, in modo rigoroso le modalità di esternazione del pensiero politico del professionista o del funzionario. Tutti ricorderanno le “uscite” del vice questore Nunzia Schilirò sanzionata perché aveva pubblicamente esternato posizioni antigovernative e “no vax”, o ancora, la più recente vicenda del Gen. Vannacci che esternando il suo pensiero contro il mainstream aveva messo politicamente in difficoltà il Ministro della Difesa.
Non dissimile è il caso del giudice Apostolico, al netto dell’infame gogna mediatica che l’ha travolta.
In realtà il problema della rilevanza delle proprie idee politiche in talune professioni è ben più profondo e di ben più difficile soluzione.
C’è, infatti, una fisiologica elasticità nella interpretazione di una norma, ed ancora di più di un sistema coordinato di norme, il cui peso politico/culturale delle proprie idee non può essere sottovalutato ed ignorato.
Tralasciando gli atti abnormi e quelli palesemente illegittimi, vi è tutta una serie di interpretazioni della norma giuridica che legittimamente possono riflettere le sensibilità e le idee politiche in senso lato dell’interprete.
Pensiamo banalmente ad un giudice che conceda delle attenuanti ad un imputato perché la sua personale sensibilità lo porta a leggere taluni comportamenti in un certo modo piuttosto che in un altro. Ancora si pensi al giudice che nel commisurare la pena valuti determinati comportamenti in un’ottica di maggiore o minore gravità a seconda della propria sensibilità culturale. Da qualche decennio, d’altronde, si è affermata fra i giuristi la legittimità di una interpretazione del diritto costituzionalmente orientata che, a ben vedere, è una lettura della norma secondo la sensibilità politica dei padri costituenti. Ancora va detto che, se le norme non venissero dal giudice interpretate liberamente, ma legittimamente nel senso sopra detto, le stesse non sarebbero in grado di adattarsi ai fisiologici mutamenti culturali, economici e sociali dello Stato. Si pensi a tal proposito all’attuale diverso atteggiamento dei giudici di merito sul tema del pieno riconoscimento dei figli delle coppie omoaffettive. Si potrebbe obiettare a questo punto che fine abbia fatto il valore della certezza del diritto. Anche su tale valore occorre guardare con occhio laico e riconoscere che si tratta di un valore tendenziale e che si ha certezza giuridica laddove la società si fondi su valori ampiamente condivisi. Così è stato nell’Italia liberale e del primo dopoguerra. Oggi in Italia vi è una profonda divisione ideologica, cosicché anche principi fondanti la Repubblica, come quello della solidarietà, sono messi in discussione a favore di altri principi non meno importanti ma non universalmente accettati.
Interpretazioni normative, anche innovative, non devono quindi allarmare più di tanto perché sono il normale divenire del diritto. Tutti i sistemi giuridici moderni hanno peraltro al loro interno meccanismi di controllo e di autoregolazione di cui, nel nostro sistema, la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale sono i legittimi garanti.
Provvedimenti coraggiosi, spesso invisi ai potenti di turno, sono la linfa della democrazia. Gli stessi si possono criticare, anche aspramente, si possono impugnare secondo le regole del sistema (anzi alle volte si devono impugnare per la maggiore tutela delle diversità di pensiero), ma di certo non autorizzano il dileggio di chi con scienza e coscienza e, talvolta, anche con travaglio interiore, li ha partoriti.