Agrigento

Venerdì Santo, il messaggio dell’Arcivescovo Damiano: “Disinneschiamo ogni forma di violenza”

L’intervento, sul sagrato della chiesa di San Domenico in piazza Municipio, dell’Arcivescovo di Agrigento Alessandro Damiano

Pubblicato 6 giorni fa

Concluso il lungo giorno del Venerdì Santo con l’intervento, sul sagrato della chiesa di San Domenico in piazza Municipio, dell’Arcivescovo di Agrigento Alessandro Damiano. Di seguito il messaggio integrale che il capo della chiesa agrigentina ha voluto rivolgere ai fedeli.

IL MESSAGGIO INTEGRALE DELL’ARCIVESCOVO DI AGRIGENTO

Ah, , versate lacrime. Sulle note di questa melodia tanto cara alla nostra tradizione, abbiamo cantato ancora una volta la nostra pena per il Cristo morto. Abbiamo invitato anche gli angeli a unirsi al nostro pianto, perché vorremmo che l’espressione della nostra commozione davanti al suo corpo esanime si dilatasse fino ad abbracciare non solo tutta la terra, ma anche il cielo. Eppure, Cristo la morte l’ha già vinta. Lui è il Risorto e il Vivente. E se stasera – con la carica emotiva di questa sacra rappresentazione – ci permette di rivivere il mistero della sua passione, è solo per ricordarci che la nostra compassione per lui è niente di fronte a quella che lui prova per noi. Anzi, offrendosi così – spogliato di tutto – alla nostra contemplazione, ci ricorda che è proprio questa compassione nei nostri confronti che l’ha spinto a diventare uno di noi, per venire a salvarci nell’abisso più profondo della nostra umanità, dove altrimenti non avremmo avuto alcuna alternativa alla morte. È proprio la sua infinita compassione per ognuno di noi che l’ha spinto a compiere questo «admirabile commercium» – questo «meraviglioso scambio», per usare un’espressione particolarmente significativa dei primi autori cristiani – che ora abbiamo davanti ai nostri occhi in tutta la sua essenzialità: fare sua la nostra morte per fare nostra la sua vita. Stasera vogliamo lasciarci provocare da questo ultimo segno che, al termine di questa lunga giornata, lui stesso ci consegna: la nudità del suo corpo senza vita e senza filtri, nella sua verità più sconcertante, in questo suo restare sospeso tra la croce e il sepolcro, tra la morte e la risurrezione. La nudità di un corpo uguale al nostro, vulnerabile e mortale come quello di ognuno di noi, umiliato e oltraggiato come quello di tanti – troppi! – di noi. Questo corpo era già rimasto nudo quando – durante la sua “Via Crucis” – lo avevano spogliato delle vesti. Già in quell’ultima sosta, prima di essere inchiodato alla croce, ci ha mostrato concretamente ciò che è avvenuto nel mistero della sua incarnazione: pur essendo nella condizione di Dio – come dice la Scrittura – non ha ritenuto un privilegio l’essere come Dio, ma ha svuotato se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini (cf. Fil 2,6-7). E ci ha anche spiegato ciò che stava avvenendo nel mistero della sua Pasqua di morte e risurrezione: si stava umiliando facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce, perché il Padre potesse esaltarlo e dargli il nome che è sopra ogni nome, al quale ogni ginocchio potesse piegarsi e di fronte al quale ogni lingua potesse proclamare che lui è il Signore (cf. Fil 2,8-11). In quella spogliazione, a un tempo reale e simbolica, Cristo ha raccolto idealmente il dramma di tutti gli sconfitti della storia, ai quali la dignità è in qualche modo negata, calpestata e offesa. Nella sua spogliazione c’è quella di tutti gli uomini e le donne che, senza più età e senza più numero, soffrono e muoiono in ogni angolo del mondo a causa della guerra, mentre da tutte le parti – con una cadenza ormai drammaticamente rituale – si invocano, si promettono e si tradiscono accordi di pace. Nella sua spogliazione c’è quella di tutti i bambini che subiscono abusi da parte di chi invece dovrebbe proteggerli, custodirli e prendersene cura, come anche quella di tutte le donne uccise da uomini che dicono di amarle, ma preferiscono vederle morte anziché libere di decidere chi amare e da chi farsi amare. Nella sua spogliazione c’è quella di tanti popoli e di tante persone su cui grava il peso dell’ingiustizia nella distribuzione delle risorse e nell’accesso ai servizi, come anche quella di tutti gli esseri umani ai cui sogni e ai cui bisogni si antepongono le leggi del mercato, le regole del profitto e le clausole del tornaconto. Dentro tutte queste storie di spogliazione, che ci sembrano lontane ma che ci appartengono in forza dell’umanità e ci interpellano in nome della fede, ci sono anche quelle più vicine a noi, che spesso ci riguardano più o meno direttamente e che tante volte non vediamo o facciamo finta di non vedere. È storia di spogliazione quella di chi è abbandonato a se stesso nell’affrontare ogni forma di povertà e di fallimento, così come le esperienze cruciali della malattia, della vecchiaia e della morte; o quella di chi è esposto alla vergogna e alla calunnia per via di sbagli effettivi o anche solo di sospetti infondati, soprattutto quando questo avviene in quelle piazze virtuali, sempre più affollate e sempre più pericolose di quelle reali. È storia di spogliazione quella di chi, non riuscendo a trovare un lavoro o avendolo perso, non può ancora progettare il futuro o non può più affrontare il presente; o quella di chi, per non cedere alla rassegnazione, è costretto ad accettare condizioni di evidente sfruttamento, compromessi non sempre leciti e retribuzione quasi mai adeguata. È storia di spogliazione quella di chi deve mendicare come favore ciò che gli spetta per diritto e pagare a caro prezzo ciò che gli è dovuto gratuitamente, per via della corruzione di alcuni e dell’indifferenza di altri; o quella di chi, delusione dopo delusione, non riesce più nemmeno a sperare che un giorno le cose possano cambiare.  Queste e tante altre storie di spogliazione, che Cristo ha fatto sue e che stasera ci ripropone offrendosi alla nostra contemplazione così, spogliato di tutto, hanno in comune sempre la stessa cosa: il fraintendimento di quell’«admirabile commercium» – di quel «meraviglioso scambio» – che abbiamo svuotato del suo valore di dono gratuito, assoluto e incondizionato e a cui abbiamo dato un valore economico, quantificandone di volta in volta il prezzo in base all’inflazione degli umori e alla convenienza degli interessi. A Maria, il giorno della presentazione al tempio, il vecchio Simeone aveva profetizzato che Gesù sarebbe stato un segno di contraddizione perché fossero svelati i pensieri di molti cuori (cf. Lc 2,34-35). Stanotte vogliamo credere che questa profezia si compia non solo in lui, che continua a offrire la sua vita per noi, ma anche in noi, che con lui vogliamo risorgere. Stanotte vogliamo prendere atto della contraddizione di tante nostre scelte e di tante nostre azioni, quando a ispirarle non è l’amore più grande ma l’egoismo più vile. Stanotte vogliamo rinnovare il nostro impegno – personale e comunitario, ecclesiale e civico – a disinnescare nel nostro piccolo ogni forma di violenza, anche quella apparentemente più innocua, a partire dalla convinzione che essa nasce sempre dalla violazione, seppure irrisoria, della dignità degli altri.  Nel primo venerdì santo della storia, Cristo ha detto alle donne di Gerusalemme, che piangevano su di lui, di piangere piuttosto su se stesse e sui loro figli. In questo memoriale che oggi si ripete, continua a dire a ognuno di noi di fare lo stesso. Ce lo dice con forza, che non ha senso piangere su di lui, se non sappiamo piangere sui disprezzati di ogni tempo e di ogni luogo, di cui lui ha voluto assumere le sembianze e condividere il destino. E ci dice soprattutto che non ha senso piangere, se abbiamo la possibilità di cambiare con lui questa storia, perché da storia di oppressione e di morte diventi storia di salvezza e di vita.  Per questo, chiediamogli la grazia di poter unire la nostra preghiera alla sua e di poterci consegnare insieme a lui al Padre. E il Padre riconosca la voce del suo Figlio nella nostra e ci accolga, insieme all’offerta della sua vita.
Padre nostro …”

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