Giudiziaria

Francesco Dimino: dalle truffe alla “Totò e Peppino” sino alla Banda della Magliana e Messina Denaro

Sembrava un personaggio di poco conto, dimenticato da tutti nonostante le sue traversie giudiziarie che cominciano a segnare il suo percorso di vita criminale già a partire dal 2005

Pubblicato 8 mesi fa

Sembrava un personaggio di poco conto, dimenticato da tutti nonostante le sue traversie giudiziarie che cominciano a segnare il suo percorso di vita criminale già a partire dal 2005 per proseguire, con altro inciampo, nel 2011 per poi cristallizzarsi al meglio adesso con l’operazione della Dia di Roma denominata “Assedio” che ha portato in carcere 18 persone e che conta complessivamente 57  indagati. 

Tra i  destinatari di richiesta di misura cautelare c’è anche Francesco Mario Dimino, di Sciacca, classe 1966, vicinissimo ai figli di Enrico Nicoletti, il boss e forziere della Banda della Magliana, ma anche legato a doppia mandata con i capoclan di Ndrangheta e Camorra. Ed anche con esponenti della banda Casamonica. Per lui la richiesta di cattura è stata rigettata dal Gip del Tribunale di Roma “per difetto di attualità e concretezza delle esigenze cautelari”. Carcere evitato per un soffio e non come nel 2005 quando, sempre a Roma, venne catturato con pesanti accuse tra le quali usura, mafia, estorsione e truffe. Ed anche nel 2005 i rapporti con la Banda della Magliana, ndranghetisti, mafiosi e camorristi e clan Casamonica vennero fuori in tutta la loro gravità. Poi, nel 2011 venne nuovamente arrestato nel blitz denominato “Il gioco è fatto”, una incredibile storia di truffe alla “Totò e Peppino” (anche usura e associazione per delinquere). Una vicenda tragicomica, al limite del vero che lo ha visto a capo, secondo gli inquirenti, di una banda di malavitosi truffaldini. Raccontano le cronache dell’epoca: “Stando agli accertamenti della Squadra mobile di Vittorio Rizzi e della sezione Criminalità organizzata di Luca Armeni, a guidarli era un ristoratore di Grottaferrata, Francesco Mario Dimino, siciliano di Sciacca, titolare del locale «Sapori di Sicilia». C’era chi contattava i soggetti da truffare e chi dava credibilità alle operazioni. E chi, come Guerino Casamonica, doveva recuperare i crediti, con le buone o le cattive. La banda avrebbe intascato denaro per la promessa di un posto nella segreteria del ministro ai Beni culturali, 32 mila euro per il 38% delle quote della villa del calciatore giallorosso Marco Cafù, 20 mila per la stessa percentuale della residenza dell’ex patron della Lazio Sergio Cragnotti. E ancora: per vendite all’asta di auto di lusso, immobili come la Coin a Cola di Rienzo e altri”. 

Il sito della Polizia di Stato ancora oggi ricorda questa vicenda così: “Volevano vendere anche la sede della questura di Roma, la palazzina di via San Vitale per 900 mila euro, e per questo avevano già incassato una caparra di 50 mila euro. Questa è solo l’ultima delle tante truffe messe a segno dalla banda composta da 11 persone arrestate stamattina dalla Squadra mobile di Roma, al termine di un’indagine durata due anni coordinata dalla direzione distrettuale antimafia capitolina. Il gruppo, capeggiato da Francesco Mario Dimino, di origine siciliana, si occupava anche di usura e riciclaggio. I criminali avevano messo a segno truffe a commercianti, professionisti, impiegati e ad esponenti del mondo dello spettacolo e delle forze dell’ordine. Oltre a proporre l’acquisto di immobili, venivano proposte anche assunzioni, millantando amicizie politiche. Il gruppo però intascava solo le caparre. Per le operazioni potevano contare su una serie di amicizie e complici come avvocati, commercialisti, agenti immobiliari e assicuratori. Alle vittime venivano dati gli appuntamenti spesso nella sede del tribunale civile di Roma poiché vantavano amicizie negli ambienti legali. Ma il gruppo prestava anche il denaro a tassi usurai e per ricevere il pagamento delle rate utilizzavano anche personaggi di spicco della banda della Magliana e della malavita romana”.

Da quelle truffe, per gli investigatori, Dimino ne ha fatto di strada. Oggi, la misura cautelare “Assedio” ed ancor più l’informativa della Dia (oltre 1600 pagine) lo presenta – e così messo in evidenza da “Il fatto quotidiano” – come “Personaggio chiave è Francesco Dimino, componente di quella che gli investigatori definiscono la “colonna siciliana” del sistema romano. Dimino è indicato come colui che curava gli interessi di Massimo Nicoletti nelle attività illecite e gli investimenti nelle palestre New audax. Nelle conversazioni intercettate, Dimino si dimostra essere vicino al boss Salvatore Miceli considerato l’intermediario tra i clan di Cosa nostra e della “Ndrangheta” e i cartelli colombiani della cocaina. “Totò è una persona seria… Totò quando è stato a Civitavecchia (nel carcere, ndr) siamo stati assieme”. Miceli a sua volta, annotano gli investigatori, deve la vita a Matteo Messina Denaro che ha interceduto per lui quando Giovanni Brusca lo condannò a morte per la mancata consegna di un grosso carico di cocaina”.

La colonna siciliana nel sistema mafioso capitolino è il titolo di un paragrafo della misura cautelare della passata settimana. E racconta proprio le cointeressenze mafiose all’ombra del Cupolone: Scrivono, tra le altre cose, i giudici: “In relazione al contesto associativo investigato, è certamente importante inquadrare il gruppo siciliano che certamente ha nelle figure di Mirabella Gaetano, Montegrande Luigi, inteso “Gino”, Barbieri Alberto e Dimino Francesco Mario, i soggetti maggiormente inseriti nelle linee del Sistema. E se per gli ultimi due appare assolutamente agevole la ricostruzione delle cointeressenze mafiose che storicamente e processualmente li hanno visti legati con la famiglia Nicoletti, la figura di Mirabella Gaetano, invece, consente di fornire un’ulteriore chiave di lettura sulla genesi ed evoluzione della storia criminale romana. In particolare, Mirabella Gaetano e i suoi fratelli Rosario, Giuseppe Mirabella Giovanni e Mirabella Salvatore sono stati tra i protagonisti principali delle dinamiche criminali registrate a Milano a cavallo tra gli anni ‘70/’80 ponendosi ai vertici del crimine meneghino, contemporaneamente ai noti Turatello Francesco, detto “Francis Faccia d’angelo”, Epaminonda Angelo inteso “Il tebano”, Mazzei Santo inteso “U carcagnusu” e Miano Luigi detto “Jimmy”. I Mirabella originariamente militavano in un’unica organizzazione criminale capeggiata dal Turatello con il quale entrarono in contrasto dopo l’arresto di quest’ultimo in data 2 aprile 1977 in seguito al quale si svilupparono due fazioni rivali rispettivamente riconducibili ai Mirabella ed al clan Epaminonda: il contrasto armato fu cruento e provocò numerosi agguati tra i quali uno dei più cruenti fu quello del 23 gennaio 1980 noto come “sparatoria di Piazzale Cuoco” in occasione del quale veniva ferito – e successivamente arrestato – lo stesso Mirabella Gaetano. E’ opportuno, tuttavia, soffermarsi su una valutazione quanto più possibile oggettiva circa la veridicità, od almeno la verosimiglianza, del racconto di Nicoletti rispetto ai suoi rapporti con Messina Denaro Matteo. In tal senso, al di là di giudizi investigativi soggettivi ed in quanto tali non asseribili come dati probatori, si ritiene che le dinamiche – così come descritte dal Nicoletti Antonio – siano assolutamente coerenti con il contesto associativo consolidato nell’ambito dell’attività investigativa. In questo scenario, quindi, è importante considerare che:

– Nicoletti Antonio, rappresenta senza dubbio il fulcro di un sistema mafioso qualificato ed attivo nell’area metropolitana romana. Al tempo stesso, unitamente al fratello Massimo, è il portatore della capacità relazionale e criminale costruita in oltre 50 anni dal padre Nicoletti Enrico sulla cui figura è superfluo soffermarsi;

– le affermazioni relative a rapporti qualificati con esponenti di “Cosa nostra” siciliana anche in relazione ad un viaggio nella provincia di Trapani, trovano ampia conferma in altre conversazioni acquisite in altro scenario della medesima attività investigativa ed intercorse tra Nicoletti Massimo e Dimino Francesco Mario, attivo sulla Capitale e cugino di Accursio già reggente del Mandamento mafioso di Sciacca;

– Lombardi Pasquale, soggetto a carico del quale formalmente sono effettuate le acquisizioni tecniche, è braccio destro del Nicoletti nonché soggetto di vertice del sodalizio indagato;

– Giulimondi Antonio, anch’egli presente alla conversazione, è non solo uno degli accompagnatori abituali del Nicoletti ma ha egli stesso un ruolo attivo nelle attività illecite soprattutto in relazione alle dinamiche di riciclaggio e di gestione della cassa;  

– i figli di Nicoletti Antonio, Enrico ed Armando, sono anch’essi coinvolti nelle dinamiche illecite del padre il quale spesso li porta con sé anche durante gli incontri riservati.

Ma il dato maggiormente contestualizzante, è tuttavia fornito proprio dalla descrizione spazio-temporale che Nicoletti fornisce dell’incontro con Messina Denaro: a Roma presso la struttura sanitaria Ifo. E’ fondamentale, in tal senso, sottolineare come la principale capacità attraverso la quale Nicoletti Antonio consolida la propria rete relazionale di cointeressenze è soprattutto legata alla Sanità. Ed infatti, le incredibili aderenze che ha ai massimi livelli in tutte le strutture sanitarie della Capitale, consentono al Nicoletti di essere un’inesauribile sponda e collettore di favori: questo è reso possibile grazie a rapporti personali con primari, professionisti e paramedici i quali a loro volta non disdegnano di rivolgersi allo stesso Nicoletti per attingere alla sua rete di amicizie. Queste circostanze, contestualizzate ampiamente anche rispetto a conoscenze dirette del Nicoletti proprio presso l’Ifo, certamente gli consentono di poter organizzare in maniera agevole visite od ospedalizzazioni “riservate” (ndr. a titolo esemplificativo, ilo 23 gennaio 2019, Nicoletti Massimo parlando del fratello Antonio che si era interessato per una vicenda sanitaria grave a favore del suo interlocutore, lo definisce “più potente del Ministro della sanità”).

Dimino non ha mai rotto il rapporto con Sciacca, sua città natale. E nel 2009, pur vivendo definitivamente a Roma, si intestò una battaglia sportiva: riportare lo Sciacca calcio in serie C prima e serie B poi. Divenne il presidente della gloriosa società calcistica della Città termale proclamando e auspicando successi nel calcio che conta. Quella esperienza durò quattro mesi. Lasciò la presidenza della società e ne costituì altre di ben altro tenore oggi scoperte dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma.

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