Giudiziaria

L’inchiesta “Mare aperto” svela la pista licatese: “Quel bastardo di zio Melino”

Indagato Carmelo Calderaro che sfiora l’arresto. Il Gip lo salva: “Non collaborava più con i trafficanti”. Intercettazioni terribili: "Se ci sono problemi con il motore, buttateli a mare".

Pubblicato 1 anno fa

L’operazione ‘Mare aperto’ della polizia di Caltanissetta ha eseguito 18 misure cautelari per associazione per delinquere. Imbarcazioni di scafisti sarebbero partite dal porto di Gela o dalle coste dell’Agrigentino, Licata in particolare, sulla costa meridionale della Sicilia, per raggiungere la Tunisia e far immediato rientro con il “carico” di migranti: è quanto emerso dall’operazione ‘Mare aperto’ della polizia di Caltanissetta, che ha sgominato la banda eseguendo 18 misure cautelari per associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

I destinatari del provvedimento sono undici tunisini e sette italiani. Nei confronti degli indagati, secondo la ricostruzione della Procura di Caltanissetta, “sussistono gravi indizi di partecipazione a un’organizzazione criminale dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravata” e che aveva “carattere transnazionale in quanto operativa in più Stati”.

Contestata anche la circostanza aggravante di aver esposto a serio pericolo di vita i migranti trasportati e di averli sottoposto a trattamento inumano e degradante. ‘In caso di problemi, buttateli a mare’ Se ci fossero stati problemi, come un’avaria al motore, gli scafisti avrebbero potuto “sbarazzarsi dei migranti in alto mare”, secondo l’indicazione data dagli organizzatori agli scafisti ed emersa da intercettazioni agli atti dell’inchiesta.

La presunta associazione per delinquere, secondo quanto ricostruito dalla Squadra mobile di Caltanissetta, avrebbe avuto punti strategici dislocati in più centri della Sicilia come Scicli, Catania e Mazara del Vallo, impiegando piccole imbarcazioni condotte da esperti scafisti che avrebbero operato nel braccio di mare tra le città tunisine di Al Haouaria, Dar Allouche e Korba e le province di Caltanissetta, Trapani e Agrigento, in modo da raggiungere le coste italiane in meno di quattro ore. Secondo l’accusa, gli scafisti avrebbero trasportato dalle 10 alle 30 persone per volta, esponendole a grave pericolo. Profitto fino a 70.000 euro per ogni viaggio Il prezzo a persona, pagato in contanti in Tunisia prima della partenza, si sarebbe aggirato tra i 3.000 e i 5.000 euro e il profitto dell’organizzazione criminale, secondo stime investigative, si attesterebbe tra i 30.000 e i 70.000 euro per ogni viaggio.

 Le indagini hanno ricostruito la pianificazione di più viaggi dalla Tunisia alle coste italiane. Il 26 luglio 2020 un’imbarcazione sarebbe partita dal porto di Licata in direzione delle coste tunisine per prelevare delle persone da condurre in Italia. Solo l’avaria di entrambi i motori non ha permesso la conclusione del viaggio e il natante è rimasto alla deriva, in “mare aperto” – da qui il nome dell’operazione della polizia – e poi trovato di fronte alle coste di Mazara del Vallo.

L’organizzazione al centro delle indagini ‘Mare aperto’ sarebbe stata promossa da un uomo e una donna tunisini, già all’epoca dei fatti agli arresti domiciliari per analoghi reati e poi condannati in via definitiva. Secondo l’accusa, gestivano l’attività da una casa di Niscemi, in provincia di Caltanissetta. Le indagini hanno permesso di individuare un altro indagato, sempre a Niscemi, che avrebbe avuto il ruolo di capo; due tunisini, con base operativa a Scicli (Ragusa), che avrebbero avuto il compito di gestire le casse dell’associazione; cinque italiani, che avrebbero curato gli aspetti logistici come l’ospitalità subito dopo lo sbarco sulle coste siciliane e il trasferimento degli scafisti dalla stazione dei pullman alla base operativa; quattro scafisti (un italiano e tre tunisini) e quattro tunisini, che avrebbero avuto il ruolo di “connection man”, con il compito di raccogliere il denaro dei migranti diretti in Europa.

Le somme raccolte in Tunisia sarebbero state inviate in Italia, a Scicli, attraverso note agenzie internazionali specializzate in servizi per il trasferimento di denaro, per essere successivamente versate su carte prepagate in uso ai promotori dell’associazione, i quali a loro volta lo avrebbero reinvestito per aumentare i profitti della stessa comprando, ad esempio, nuove imbarcazioni da utilizzare per le traversate.

Tra le persone indagate figura il licatese Carmelo Giuseppe Calderaro, meccanico di 68 anni, che ha schivato l’arresto per puro miracolo.

Infatti, per Squadra mobile di Caltanissetta e Procura della Repubblica, l’uomo, chiamato da tutti “zio Melino”, sarebbe organicamente inserito nel sodalizio criminale e per questo era stata chiesta la cattura che il Gip del Tribunale di Caltanissetta, Davide Salvucci ha respinto motivando in questo modo: “Ritiene il decidente che nei confronti di Carmelo Giuseppe Calderaro non sussista esigenza cautelare alcuna e, ancor meno, quella di cui alla lettera c) dell’art. 274 c.p.p., emergendo piuttosto, dai dialoghi intercettati, come il predetto indagato si sia spontaneamente allontanato dal sodalizio che fa capo a Toumi Akrem ed a Bartoluccio Giovanni, non intendendo più mettere a disposizione dell’organizzazione delle trasferte trans-mediterranee volte ad introdurre clandestinamente in Italia soggetti provenienti dalla Tunisia la propria professionalità di meccanico. Il dato emerge, infatti, in maniera piuttosto inequivocabile, dalla conversazione nel corso della quale Toumi Akrem e Bartoluccio Giovanni – commentando l’inerzia del Calderaro nel riparare i due motori che avrebbero dovuto essere montati nel gommone da utilizzare per effettuare la trasferta in programma da lì a qualche giorno, spintasi al punto da restituire i due organi propulsori senza avervi effettuato gli interventi di cui necessitavano ed addirittura smontati, tanto che il Toumi ed il Bartoluccio preferivano che ad effettuarli fossero quelli della ditta Motomare – afferma: “e non ne ha più volontà di lavorare” e Toumi Akrem chiosa dicendo: “ha lavorato a tre barche, nella barca nostra no .. pagata, pagato, pagato .. bastardo”, con ciò volendo dire che Calderaro, nonostante fosse stato pagato per i precedenti lavori effettuati sui natanti dell’organizzazione, in tale ultima occasione aveva preferito effettuare lavori su altre barche, come un sodale giammai avrebbe fatto, al punto che il Toumi non ha alcuna remora a dargli del “bastardo”, invero in due occasioni nel corso della medesima conversazione, la prima quando invitata Bartoluccio a chiudere la conversazione telefonica con il Calderaro.

Si ritiene da escludere, poi, che il Calderaro possa darsi alla fuga, quanto meno in ragione dell’età che annovera, essendo ormai prossimo ai settanta anni.

La richiesta di applicazione di misura cautelare avanzata nei riguardi di Carmelo Giuseppe Calderaro, pertanto, non può trovare accoglimento”.

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