20 maggio 1996, ventisei anni fa l’arresto di Brusca ad Agrigento: la storia
Il 20 maggio 1996 finisce a Cannatello, frazione balneare di Agrigento, la latitanza di Giovanni Brusca, il “boia” di Capaci
Il 20 maggio 1996 finisce a Cannatello, frazione balneare di Agrigento, la latitanza di Giovanni Brusca, il “boia” di Capaci. Sono passate da poco le nove di sera e il rumore di una motocicletta squarcia la quiete tra i villini a schiera della zona. Ed è proprio quel frastuono di una moto “smarmittata” il segnale che conferma la presenza del boss di San Giuseppe Jato, “u verru”, oltre 150 omicidi, un bimbo strangolato e sciolto nell’acido, colui il quale premette il pulsante che fece saltare in aria il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti di scorta il 23 maggio 1992. Tra tre giorni si celebrerà il trentennale. Scatta il blitz che dura pochi secondi. Giovanni Brusca si trovava insieme al fratello Enzo, le mogli e i figli. Non ha avuto il tempo neanche di pensare a cosa stesse succedendo. Una volta ammanettato si rifugia in un silenzio che manterrà per tutto il viaggio da Agrigento a Palermo. Un poliziotto, prima dell’uscita davanti a telecamere e giornalisti davanti la Questura di Palermo, lo farà sostare davanti un albero dedicato a Giovanni Falcone: “Vedi Brusca, quell’uomo, Giovanni Falcone, vive ancora. Tu invece sei una persona finita”. Il resto è storia.
LE INDAGINI
Ma come si arriva alla cattura di Brusca? A raccontarlo è Alfonso Sabella nel suo libro “Il cacciatore”. Bisogna così tornare indietro di qualche settimana e, precisamente, pochi giorni dopo l’arresto di Giuseppe Monticciolo. Ufficialmente è un muratore di San Giuseppe Jato ma, come si vedrà, è a tutti gli effetti un membro della cosca. Un killer. Decide di collaborare subito dopo il suo arresto e, durante un interrogatorio, rivela: “Quannu ci abbruscia ‘u culu, Brusca curri a Giurgenti”. Quando è in difficoltà, Brusca si rifugia ad Agrigento. E in effetti in difficoltà lo era, Brusca. Inquirenti e investigatori gli stavano addosso, si erano avvicinati a lui “pericolosamente” arrivando ad un soffio dalla sua cattura prima a Borgo Molara, poi a Partinico. Un altro tassello fondamentale è l’arresto di Salvatore Cucuzza: altro pezzo da novanta latitante, reggente del mandamento di Porta Nuova, un boss di grosso spessore. Addosso gli viene trovata un’agenda e sarà “la carta decisiva”. Racconta Sabella: “Totò Cucuzza, pensando invece alla famiglia, che per tutti i mafiosi è sacra, ha scelto come codice la frase ‘ntalè i soru, guarda le sorelle. Un’agendina di sole lettere, fitte fitte. Per scoprire qual è il numero di una certa persona, indicata sempre con un soprannome o uno pseudonimo, bisogna sostituire una cifra alla lettera corrispondente. Come si fa, al contrario, con le parole crociate crittografate. Zerbo conosce il numero di telefono dei fratelli Adamo, i Nanetti dell’agendina, e da qui partiamo. Decifriamo con certezza i primi caratteri e poi, aiutandoci anche con i prefissi, troviamo l’intera chiave di lettura, la frase di dieci lettere ‘ntalè i soru, e risaliamo a tutti gli altri numeri. Parlo con Franco Lo Voi e decidiamo di concentrarci su questi Nanetti. Mettiamo sotto controllo le loro utenze telefoniche: dall’analisi dei tabulati risaliamo a due strani numeri Gsm intestati a una vecchietta di novant’anni che abita a San Giuseppe Jato, il paese di Brusca. Del tutto legittima la nostra curiosità: in procura abbiamo ancora gli e-tacs analogici e questa anziana signora di paese, invece, avrebbe addirittura ben due cellulari digitali di ultima generazione. Scopriamo anche che la novantenne non è una nonnetta qualunque che parla al telefono con i nipotini. È la zia di Santo Sottile. Ipotizziamo quindi che il macellaio di San Giuseppe Jato si sia servito della zia come prestanome, intestandole i cellulari per conto del boss. E facciamo centro. Dall’analisi del traffico telefonico viene fuori che ogni sera, dalle venti alle venti e trenta, uno di questi due telefoni entra in contatto con un altro Gsm che si trova nella zona di Agrigento. Ci ritornano in mente le parole di Monticciolo a proposito di Brusca, che scappa nella Valle dei templi quando si sente braccato.”
LA COLLABORAZIONE E LA SCARCERAZIONE
La collaborazione con lo Stato di Giovanni Brusca è tra le più controverse. Ottiene lo “status” di pentito nel 2000 ma qualcosa non quadra. Il primo tentativo di “aiutare” l’autorità giudiziaria si rivela una truffa organizzata insieme al fratello. L’obiettivo era quello di screditare l’antimafia e depistare le indagini. Sarà proprio Enzo Brusca a rivelare l’oscura trama. Nasce così una seconda fase in cui Giovanni Brusca, dopo aver confermato il diabolico piano, decide di collaborare. In oltre venti anni di interrogatori, verbali e deposizioni racconta trame, fa nomi e cognomi, collegamenti tra mafia e politica. Il 31 maggio 2021, dopo venticinque anni e con 45 giorni di anticipo rispetto alla scadenza della condanna, torna in libertà. Da quel giorno è sottoposto a controlli e protezione ed a quattro anni di liberta’ vigilata, come deciso dalla Corte d’Appello di Milano.