Mafia

La “Stidda” di Palma in soccorso della Banda della Magliana: omicidi, corruzioni, traffico d’armi

Da Palma di Montechiaro a re di Roma Nord: la storia di Salvatore Nicitra raccontata dal pentito Calafato

Pubblicato 1 anno fa

Un vero e proprio romanzo criminale. Da Palma di Montechiaro a padrone incontrastato di Roma nord. Una vita vissuta a cento chilometri orari che parte dal più profondo sud fino ad arrivare alla capitale. Dai rapporti con la famigerata Banda della Magliana alle parentele e collusioni con i clan della Stidda e le famiglie mafiose dell’agrigentino che, alla fine degli anni ottanta, diedero vita ad una sanguinosa guerra di mafia.

Sullo sfondo anche le misteriose scomparse del fratello prima e del figlio poi. Entra nel vivo il processo a Salvatore Nicitra, alias l’ingegnere, protagonista assoluto dell’intera inchiesta Jackpot sfociata tre anni fa nell’arresto di trentotto persone. Estorsioni, gioco d’azzardo, usura. E anche quattro omicidi svelati a distanza di quasi quaranta anni. Un’associazione capeggiata da Nicitra ma che poteva contare, secondo gli inquirenti, anche di una vera e propria “cellula” di Palma di Montechiaro (tra cui Franco Inguanta e Rosario “Saro” Zarbo) trapiantata ormai da anni a Roma.

Il processo ha subito un vero proprio scossone con l’entrata in scena di Giovanni Calafato, un tempo tra i leader della Stidda di Palma di Montechiaro, oggi collaboratore di giustizia. È grazie alle sue dichiarazioni – ma anche ai contributi forniti da altri pentiti quali Giuseppe Croce Benvenuto, Giuseppe Marchese, cognato di Leoluca Bagarella e Maurizio Abbatino, storico capo della Banda della Magliana – che si è potuto fare luce su una serie di delitti rimasti veri cold case per decenni. Calafato, nell’ottobre 2015, si autoaccusa dell’omicidio di Valentino Belardinelli, ucciso nel 1988 mentre rincasava (armato) con la fidanzata, indicando in Nicitra il mandante. Lo scorso 15 marzo Calafato e Nicitra si sono ritrovati faccia a faccia in tribunale. Il collaboratore di giustizia, rispondendo per oltre due ore alle domande del pm Stefano Luciani, non soltanto ha descritto la figura del “Re di Roma nord” ma, più in generale, ha tracciato uno spaccato di mafia siciliana (e non soltanto) lungo trent’anni.

Ecco la deposizione di Calafato.

LA GENESI. “Inizio a collaborare il 7 ottobre 1994. Collaboro per una scelta di vita, ero sposato e avevo un figlio e questa strada non portava a niente. Il mio primo arresto risale al 1984 per una rapina. Eravamo un gruppo dedito ai colpi in banca. Nel 1987 sono stato nuovamente arrestato per una tentata estorsione ma intanto mi ero trasferito in Germania dove frequentavo miei paesani e continuavo a fare le rapine. Iniziarono a chiamarci “stiddari”. A Palma di Montechiaro ne facevamo parte io, mio fratello, Croce Benvenuto, Conte, Pace, Farruggio, Allegro. Ci siamo contrapposti alle famiglie di Cosa nostra della provincia. A Palma di Montechiaro il capo di cosa nostra sono stati diversi: prima c’era Andrea Palermo, ancora prima Calogero Sambito e prima ancora suo suocero Totò Di Vincenzo, detto “Totu u nasu”. Noi eravamo un gruppo forte e abbiamo deciso di fare la guerra alle famiglie di cosa nostra perchè ci volevano ammazzare. Il primo atto della guerra è stato l’omicidio di Gioacchino Ribisi. Poi ci siamo alleati con gli altri gruppi stiddari di Canicattì ma anche di Gela, Caltanissetta e Vittoria.”

DA PALMA DI MONTECHIARO A ROMA PER UCCIDERE. “Tutti i delitti di cui mi sono autoaccusato non erano conosciuti. Io arrivo a Roma perchè conoscevo Calogero Farruggio che era sposato con la sorella di Rosario Zarbo, un cugino di Salvatore Nicitra. Lillo Farruggio faceva parte del nostro gruppo, abbiamo fatto una rapina insieme in una banca di Naro ma poi si è defilato e si è trasferito a Roma dove si appoggiava ai cugini Salvatore e Domenico Nicitra. I fratelli Nicitra sono di Palma di Montechiaro ma sono andati via da giovani perchè credo che gli avessero ucciso il padre. Io li ho conosciuto alla fine degli anni ottanta a Roma. Raggiungo la capitale su indicazione di Lillo Farruggio per dargli una mano per togliere di mezzo gente che dava fastidio a Nicitra. Inizialmente l’omicidio doveva essere commesso da Croce Benvenuto ma poi fu arrestato. Questa persona che doveva morire faceva rapine, voleva togliere il business a Nicitra, raccoglieva scommesse. Io avevo a che fare con Nicitra ma vi erano altre persone della borgata di Primavalle e non soltanto. Ricordo un tale Nevio e tale Ruggero ma anche un certo Bruno chiamato anche “Nasone”. Questo Bruno lo ricordo anche perchè è stato in carcere a Rebibbia con Ferro, all’epoca capo della mafia agrigentina. A quanto so il Ferro chiese a Nicitra, tramite Bruno, di fargli ottenere perizie per farlo mandare agli arresti domiciliari.”

L’USURA E LE BISCHE. “Nicitra era uno dei più grossi strozzini e si occupava di bische clandestine, videopoker, gioco d’azzardo, totonero. Inizialmente aveva una batteria che si dedicava alle rapine. L’attività di usura cominciò quasi per caso. Alla fine degli anni ottanta lo avevano arrestato e aveva 200 milioni di lire frutto della rapine. Così decise di farli gestire ad un altro. Una volta uscito, vedendo i guadagni, prese in mano la situazione. In quel periodo guadagnava 500-800 milioni di lire al mese. Aveva una grande disponibilità di denaro contante. Usava anche dei prestanome per questa attività. Per quanto riguarda le bische clandestine erano frequentate da gente comune. Una era in piazza Venezia in un appartamento e un’altra in corso Francia. Nicitra prendeva il 5% delle giocate. Si giocava alla roulette ma anche a carte. Nella gestione di queste bische Nicitra veniva coadiuvato da Rosario Zarbo e Francesco Inguanta. Rosario Zarbo è cugino di Nicitra tramite la madre, figli di sorelle. Inguanta è pure cugino di Nicitra. Inguanta lo conoscevo già quando stavamo a Palma di Montechiaro negli anni ottanta da ragazzi e in quel periodo non abbiamo avuto a che fare in termini criminali. All’epoca era un bravo ragazzo. In una delle bische clandestine ricordo che un gioielliere contrasse un grande debito con Nicitra. Quest’ultimo lo andò a minacciare e venne ripagato con un rolex diamantato.

LE ARMI DI NICITRA. “Nicitra aveva disponibilità di armi. A me ha dato personalmente giubbotti antiproiettile, un mitra calibro dodici delle forze dell’ordine e delle pistole a tamburo. Io gliele avevo chieste alla fine degli anni ottanta quando ci stavamo apprestando a fare la guerra con Cosa nostra. Le armi le portammo in Sicilia in auto io e Lillo Farruggio. Le abbiamo usate per la guerra di mafia. Nicitra a quel tempo girava armato e aveva anche una Golf bianca blindata su cui sono salito. Inguanta era imparentato con i Ribisi, la famiglia mafiosa con cui ci stavamo scontrando. Nicitra mi disse che una volta era venuto a Roma Gioacchino Ribisi per delle armi ma gli disse che non ne aveva. Che io sappia comunque Nicitra non è affiliato a Cosa nostra.”

LA BANDA DELLA MAGLIANA. “Nicitra non faceva parte della Banda della Magliana ma conosceva molti esponenti del gruppo e talvolta ha avuto anche rapporti criminali. Ricordo di un tale Nicoletti (Enrico, cassiere della banda) che aveva a che fare con Pippo Calò. Che io sappia Nicitra non ha mai avuto rapporti con Calò ma sapeva cove abitava. Una volta mi fece vedere casa sua da fuori. Salvatore Nicitra all’epoca era in grado di corrompere funzionari della Prefettura, dottori per perizie compiacenti, poliziotti del commissariato e anche personale del tribunale. Una volta Farruggio mi portò un messaggio di Nicitra quando ero detenuto dicendomi di farmi trasferire a Roma e che mi avrebbe fatto andare ai domiciliari. L’ultima volta che ho visto Nicitra è stato nel 1989. Poi ho avuto rapporti per dire indiretti. Nel 1993 quando sono uscito ho incontrato Farruggio e gli ho chiesto notizie sulle scomparse del fratello di Nicitra e del figlio ma non si sbilanciò più di tanto.”

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