Mafia

La strage di via D’Amelio e quelle “verità nascoste”

Quello che e' successo 57 giorni dopo la strage di Capaci, resta in buona parte un mistero da indagare ancora in profondita' per dare giustizia a Paolo Borsellino e ai poliziotti della scorta

Pubblicato 2 anni fa

La strage di via D’Amelio, “tragica nel suo esito umano e deflagrante sul piano politico istituzionale dell’epoca in cui si consumo’”, pone “un tema fondamentale”, quello della verita’ nascosta, o meglio non completamente disvelata”. Cosi’ scrivevano i giudici del tribunale di Caltanissetta – aprendo al contempo un ulteriore fronte di indagini sulle numerose e ostinate, quasi ottuse, reticenze emerse nel processo – nelle motivazioni depositate nell’aprile 2023 della sentenza del 12 luglio del 2022 sul depistaggio delle indagini successive alla strage di via D’Amelio, nei confronti di tre poliziotti del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino”, accusati di calunnia aggravata e conclusosi, con la prescrizione delle accuse a Mario Bo e Fabrizio Mattei e l’assoluzione per Michele Ribaudo: la caduta dell’aggravante ha determinato la prescrizione. Secondo i pm, che hanno impugnato la sentenza, gli imputati avrebbero indottrinato dei falsi pentiti che sarebbero stati costretti a mentire e ad accusare della strage del 19 luglio 1992 – persone poi rivelatesi innocenti.

QUELLE “AMNESIE DI STATO”

Ebbene, per i magistrati, “tra ‘amnesie’ generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sull’eccidio di 31 anni fa sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato”.  E arriva l’amara considerazione dei giudici che “a distanza di circa 30 anni dalla strage di via D’Amelio”, vi sono “limiti strutturali non oltrepassabili poiche’ piu’ ci si allontana dai fatti piu’ e’ difficile recuperare il tempo perduto”. Quello che e’ successo 57 giorni dopo la strage di Capaci, resta in buona parte un mistero da indagare ancora in profondita’ per dare giustizia a Paolo Borsellino e ai poliziotti della scorta Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina.

PAOLO AD AGNESE, “MANI ESTERNE A MAFIA PER UCCIDERMI”

Intorno alla meta’ del mese di giugno del 1992, Paolo Borsellino confido’ alla moglie Agnese che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato” e poi aggiunse che aveva visto la “mafia in diretta”, parlando anche in quel caso di contiguita’ tra mafia e pezzi di apparati dello Stato”. Alla moglie, proprio il giorno prima della strage, rivelo’ anche che “non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che cio’ potesse accadere”. Avrebbe espresso la convinzione secondo cui “personaggi estranei a Cosa nostra avrebbero, di li’ a poco, organizzato o comunque partecipato alla sua eliminazione, percependo dunque come provenienti dal ‘fuoco amico’ le minacce rivolte nei suoi confronti”. 

SOGGETTI ESTRANEI NELLA FASE IDEATIVA ED ESECUTIVA

I giudici nisseni ritengono che “tanto nella fase ideativa, quanto nella fase esecutiva soggetti estranei a Cosa nostra abbiamo svolto un ruolo nella strage di via D’Amelio”. Tuttavia “nella sua secolare storia, Cosa nostra non ha mai eseguito decisioni adottate all’esterno di essa”. Il tribunale nisseno ipotizza “una convergenza di interessi con persone o enti estranei alla consorteria, magari esplicatasi nell’avvalersi del contributo di tali soggetti” e la “partecipazione morale e materiale alla strage di via D’Amelio di altri soggetti diversi da Cosa nostra e/o gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”.

CLIMA DI “OMERTA’ ISTITUZIONALE”

I giudici hanno riconosciuto come la strage di via D’Amelio ponga “un tema fondamentale, quello della verita’ nascosta, o meglio non completamente disvelata”. Troppe amnesie generalizzate da parte di uomini infedeli allo Stato e delle istituzioni che non avrebbero reso “testimonianze integralmente genuine”. Secondo il tribunale si respirava “un clima di diffusa omerta’ istituzionale”. Vi sarebbero stati anche quattro poliziotti che fecero parte del gruppo Falcone-Borsellino, che avrebbero reso “dichiarazioni insincere”, uno dei quali “con i suoi 121 non ricordo”. Per loro e’ stato disposto l’invio degli atti alla procura. Insomma, si continua a scavare e indagare su questo “clima di omerta’ istituzionale”. 

DEPISTAGGIO INIZIATO CON LA SCOMPARSA DELL’AGENDA ROSSA

Il depistaggio sarebbe iniziato subito dopo la strage con la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, puo’ ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non e’ riconducibile a una attivita’ materiale di Cosa nostra”, spiegano i giudici del Tribunale di Caltanissetta.

 LA PROCURA IMPUGNA SENTENZA, “E’ CERTO CHE NON FU SOLO COSA NOSTRA”

I magistrati della procura di Caltanissetta nel maggio scorso hanno impugnato la sentenza. Per il procuratore capo Salvatore De Luca ed il pm Maurizio Bonaccorso, “e’ dimostrato in maniera incontrovertibile il coinvolgimento nella strage del 19 luglio 1992, anche di soggetti estranei a Cosa nostra, affermazione che non puo’ nemmeno essere messa in discussione dal mancato accertamento di specifiche responsabilita’ penali”.Le prove del coinvolgimento di soggetti estranei alla mafia sarebbero la “tempistica della strage che non coincide con gli interessi della consorteria mafiosa e la strana presenza di appartenenti al servizio di sicurezza attorno alla vettura blindata del magistrato negli attimi immediatamente successivi all’esplosione”.

“RAPPORTI DI COINTERESSENZA”

La lettura della sentenza, scrivono i due magistrati, “manifesta le evidenti difficolta’ dei giudici di primo grado nelle operazioni di analisi e valutazione dell’imponente materiale probatorio acquisito nel corso del processo. E la spia di tale difficolta’ la si ricava, oltre che da un estenuante ricorso al ‘copia e incolla’ delle precedenti sentenze che hanno definito i processi gia’ celebrati per l’accertamento delle responsabilita’ per la strage di via d’Amelio, da contraddizioni e profili di illogicita’”. De Luca e Bonaccorso spiegano che vi e’ “un quadro estremamente chiaro delle motivazioni che hanno spinto il dottor La Barbera a commettere gli abusi e i gravi illeciti (accertati con sentenze passate in giudicato) nella conduzione delle indagini sulla strage di via d’Amelio; da un lato certamente anche la finalita’ di carriera ma soprattutto la necessita’ di mantenere le indagini su un livello tale da non disvelare i rapporti di cointeressenza che Cosa nostra ha avuto nella ideazione e nell’esecuzione della strage di via d’Amelio e con ambienti esterni alla stessa”. Anche gli avvocati del collegio difensivo e gli avvocati di parte civile hanno impugnato la sentenza emessa dal Tribunale di Caltanissetta. 

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