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Le pressioni sulle aziende confiscate: “Lì non ci devi andare perché non è il tuo mestiere”

Documentata anche una cena a base di porchetta all'interno dell'azienda in amministrazione giudiziaria

Pubblicato 2 anni fa

Per nulla rassegnati alla confisca della loro aziende, due imprenditori di Enna avevano messo a punto una rete di complicita’ e una serie di ingerenze e pressioni mafiose per potersele riprendere. Lo ipotizza la Dia di Caltanissetta, che ha chiesto e ottenuto dal Gip un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 12 persone, indagate – in concorso e a vario titolo – per i delitti di furto ed estorsione aggravata dal metodo mafioso: nove vanno in carcere e tre ai domiciliari. Le indagini, condotte dal e indagini, condotte dal Gruppo Investigazione Criminalita’ Organizzata di Caltanissetta coadiuvati dai finanzieri della locale sezione di polizia giudiziaria, si collocano nell’ambito delle “agromafie”. I due imprenditori sono fratelli, e avrebbero tentato di mettere piu’ volte i bastoni tra le ruote all’amministratore giudiziario delle aziende, arrivando perfino a sottrarre beni e macchinari. I lavoratori assunti dall’amministrazione giudiziaria, inoltre, venivano intimiditi da soggetti ‘vicini’ ai due imprenditori e costretti a lasciare il posto ad altri, nello stupore dell’amministratore giudiziario, al quale non spiegavano le regioni delle dimissioni. I due fratelli avrebbero organizzato, all’interno di una delle imprese sequestrate, anche un evento conviviale “una cena a base di porchetta”: una dimostrazione di forza, per aumentare il proprio prestigio di fronte agli intervenuti.Uno dei due fratelli, attraverso “l’intermediazione” di altri “fiancheggiatori”, uno dei quali di “Cosa nostra” de Messinese, avrebbe estorto la restituzione di un autocarro aziendale che un privato di quella provincia aveva legittimamente e “incautamente” acquistato dall’amministrazione giudiziaria. La rete di presunti “sodali” e “fiancheggiatori” ha con ramificazioni nelle province di Enna, Catania e Messina.

 LE INDAGINI E IL RUOLO DEI FRATELLI STANZU’

E’ stata una lunga e articolata indagine, quella condotta dai finanzieri di Caltanissetta agli ordini del colonnello Stefano Gesuelli e che ha ricostruito episodi di furto e di estorsione mafiosa nell’Ennese, attraverso i quali i fratelli Gabriele Giacomo Stanzu’ e Nicola Antonio Stanzu’, rispettivamente di 62 e 45 anni, avrebbero tentato di riprendere il controllo di fatto delle proprie aziende confiscate. Sulla famiglia Stanzu’ di Leonforte, in provincia di Enna, da anni c’e’ l’attenzione della procura antimafia di Caltanissetta. Anni fa quattro la loro ‘roba’, aziende per un valore complessivo di 11 milioni di euro, entrarono nel mirino dello Stato, ma, nonostante cio’ i due fratelli, raggiunti oggi da ordinanza di custodia cautelare in carcere insieme con altre dieci persone, riuscirono a infiltrarle con faccendieri e a depredarle di fieno, mangime e anche taniche di carburante. A firmare l’ordinanza di custodia cautelare e’ stata il gip Valentina Balbo. Le indagini – partite nel 2021 e svolte dal Gico di Caltanissetta coordinato dalla Dda nissena – hanno finito per “smantellare”, affermano gli investigatori, la rete che i fratelli Stanzu’ avevano costruito per intimorire chi veniva chiamato a lavorare nelle aziende agricole confiscate. L’amministratore delle aziende aveva cercato in ogni modo di trovare personale da assumere. O meglio in un primo momento gli operai manifestavano la volonta’ di lavorare e poi non si presentavano. In quelle aziende, confiscate alla mafia nel territorio dell’Ennese, la presenza dei fratelli Stanzu’ era costante. Di fatto i due fratelli ennesi avrebbero continuato a mantenere un controllo delle aziende attraverso i fedelissimi Felice Cicero di Raddusa (34 anni), Michele Marcellino di Leonforte (32 anni) e Giorgio Renda, 39 anni di Raddusa (provincia di Catania): i tre, secondo gli investigatori, informavano i vecchi datori di lavoro su tutto cio’ che accadeva all’interno delle aziende e nello stesso tempo ricevevano direttive in contrasto con le indicazioni impartite dall’amministratore giudiziario. Gabriele Stanzu’ di 62 anni e’ una vecchia conoscenza delle forze dell’ordine. Fino ad aprile del 2021 – mentre erano in corso le indagini del Gico – era sottoposto a liberta’ vigilata, quindi non poteva uscire dal comune di Leonforte. Nel 2005 venne arrestato perche’ sospettato di essere affiliato alla famiglia catanese di Cosa nostra, in particolare a Francesco La Rocca di Caltagirone e a Sebastiano Rampulla di Messina. Per questi fatti venne condannato ad un anno e 4 mesi per assistenza agli associati. Sul conto di Stanzu’ sono state diverse, nel tempo, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia gelesi, che hanno parlato di suoi legami con la famiglia mafiosa Emmanuello di Gela.

LA CENA A BASE DI PORCHETTA NELL’AZIENDA CONFISCATA

Una cena a base di porchetta all’interno dell’azienda in amministrazione giudiziaria. L’episodio, evidenziato con il blitz “Terzo Tempo” viene ricostruito dai finanzieri del Gico di Caltanissetta attraverso la localizzazione degli indagati. In quell’eventi conviviale – secondo una prima ricostruzione – erano presenti Nicola Stanzu’ ed il fidato dipendente Michele Marcellino, oltre ad altri indagati Felice Cicero e Giorgio Renda. Secondo il gip la cena nell’azienda di contrada Tufo, nelle campagne ennesi di Aidone, e’ simbolica perche’ rappresenterebbe la disponibilita’ dei locali agli ex proprietari. Un modo come l’altro per affermare la sua supremazia, visto che l’azienda ancora oggi e’ in amministrazione giudiziaria. Grazie a dei lavoratori “talpe” che ai fratelli Stanzu’ riferivano tutte le decisioni dell’amministratore giudiziario, i due imprenditori avrebbero ricevuto per tempo i nominativi di chi doveva essere assunto nelle loro aziende e le citta’ di provenienza. In questo modo i due avrebbero cercato, attraverso altre persone ora indagate, di far desistere i nuovi dipendenti ad andare al lavoro. Una intimidazione che secondo il Gip e’ “un’estorsione aggravata dal metodo mafioso”. “Rischi di andare a lavorare e un t’arricampi (Rischi di andare a lavorare e di non tornare, ndr)”, avrebbero detto alcuni indagati a un giovane di Barrafranca che l’amministratore giudiziario delle aziende dei Stanzu’ avrebbe proposto un contratto di lavoro. La preoccupazione di ripercussioni avrebbe indotto il giovane, cosi’ come altre tre persone, a rinunciare al posto di lavoro. “Dda un c’ha ghiri. Tu chi chiami, tu nun ci vai, pecchi’ nunn’e’ u to mistiripunto (Li’ non devi andare, perche’ quello non e’ il tuo mestiere…punto, ndr)”: e’ l’indicazione che Nicola Stanzu’ avrebbe dato a un intermediario per intimorire un operaio che di li’ a poco sarebbe dovuto andare a lavorare nelle sue ex aziende che sono sotto amministrazione giudiziaria. Minacciando i nuovi lavoratori, di fatto, i fratelli Stanzu’ avrebbero permesso a Cicero e Marcellino di diventare “insostituibili” e quindi continuare a lavorare alle dipendenze dell’amministratore giudiziario nonostante non svolgessero le mansioni e gli incarichi che venivano loro assegnati.

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