Mafia, 43 anni fa l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa venne ucciso in via Carini a Palermo con la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo
Palermo ricorda il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, il “prefetto dei cento giorni”, inviato nel capoluogo siciliano per combattere la mafia dopo gli importanti risultati nella lotta al terrorismo. Una battaglia, pero’, solitaria e con le armi spuntate. Inascoltata la richiesta di poteri speciali. La sera del 3 settembre 1982, in via Isidoro Carini, un commando di fuoco lo ha ucciso insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro, 32 anni, infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana, alla guida di una A112, e all’agente di scorta 32enne Domenico Russo.
Stamane alle 9.30 l’omaggio e la deposizione di una corona d’alloro nel luogo dell’eccidio. Un delitto commesso da Cosa nostra in un contesto di isolamento istituzionale. Nell’ultima intervista a Giorgio Bocca, il prefetto spiego’ che “un uomo viene colpito quando viene lasciato solo”. E il pubblico ministero Nico Gozzo nella sua requisitoria parlo’ di “un delitto maturato in un clima di solitudine: Carlo Alberto Dalla Chiesa fu catapultato in terra di Sicilia nelle condizioni meno idonee per apparire l’espressione di una effettiva e corale volonta’ dello Stato di porre fine al fenomeno mafioso”.
Inevitabili, secondo il magistrato, gli effetti di questo ‘abbandono’: “Cosa nostra ritenne di poterlo colpire impunemente perche’ impersonava soltanto se stesso e non gia’, come avrebbe dovuto essere, l’autorita’ dello Stato”. Gli uomini della cupola erano gia’ stati condannati nel Maxiprocesso nato proprio da un rapporto di Dalla Chiesa contro 162 esponenti di Cosa nostra e consolidato, nel suo impianto accusatorio, dal contributo di alcuni grandi pentiti come Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Francesco Marino Mannoia.
Il superprefetto, nato a Saluzzo (Cuneo) il 27 settembre del 1920, ritorno’ a Palermo con procedura d’urgenza dopo avere affrontato la malavita del nord, la mafia siciliana e le brigate rosse. Era la sera del 30 aprile del 1982, poco dopo l’uccisione del segretario siciliano del Pci, Pio La Torre, terzo uomo politico assassinato nel giro di qualche mese dopo Piersanti Mattarella, democristiano, presidente della Regione siciliana, e Michele Reina, segretario della Dc palermitana. Ma durante i suoi cento giorni a Palermo non ebbe quei poteri speciali piu’ volte inutilmente richiesti.
Quel venerdi’ di 43 anni fa sembro’ davvero che fosse per sempre “morta la speranza dei palermitani onesti”, come scrisse un cittadino del capoluogo siciliano su un lenzuolo nel luogo della strage. Durante i funerali, il cardinale Salvatore Pappalardo tuono’ dall’altare usando le parole di Tito Livio: “Dum Romae consulitur… Saguntum espugnatur. Mentre a Roma si pensa sul da fare, la citta’ di Sagunto viene espugnata e questa volta non e’ Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra”. I mandanti e alcuni esecutori sono stati condannati all’ergastolo. Ma, come disse l’ex procuratore antimafia Pietro Grasso, “per gli omicidi eccellenti bisogna pensare a mandanti eccellenti”.
La loro ricerca sembra non avere fatto significativi passi avanti e l’unica verita’ giudiziaria e’ compendiata nelle sentenze di condanna per due sicari e per i vertici della cupola tra cui Toto’ Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco e Pippo Calo’. “Si puo’ senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra – affermo’ la sentenza con cui nel 2002 la corte d’Assise inflisse l’ergastolo ai killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia – concernenti sia le modalita’ con le quali il generale e’ stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacita’ del generale”.