Sentenza “Montagna”, Di Giovanni pienamente inserito nella cosca di Favara
Molto attivo nel settore estorsioni
Sono state depositate le motivazioni della sentenza di Appello del maxi processo alla mafia della Montagna della provincia di Agrigento. Trentaquattro condanne, alcune riduzioni di pena, un solo “ribaltone” e diverse assoluzioni “pesanti” confermate anche in secondo grado. Si chiude così il processo d’Appello – celebrato davanti la seconda sezione penale di Palermo – scaturito dalla maxi operazione “Montagna” – eseguita nel gennaio 2018 dai carabinieri del Comando Provinciale di Agrigento – contro le famiglie mafiose dell’agrigentino e del neonato mandamento.
Il personaggio “chiave” dell’intera inchiesta è Francesco Fragapane, figlio del boss ergastolano ed ex capo provinciale di Cosa Nostra Salvatore Fragapane, considerato dagli inquirenti il vero promotore del nuovo mandamento della Montagna: i giudici di secondo grado lo hanno condannato a 14 anni, riducendo la pena a venti anni di reclusione inflittagli in primo grado.
Leggeri sconti di pena anche nei confronti di Giuseppe Luciano Spoto, considerato boss di Bivona, e Giuseppe Nugara, ritenuto al vertice della famiglia mafiosa di San Biagio Platani (entrambi condannati a 16 anni dopo che in primo grado gli erano stati inflitti quasi venti anni). E’ scesa a 13 anni e 4 mesi (dopo una condanna a 17 anni in primo grado) la pena inflitta allo “storico” boss di Sciacca, Totò Di Ganci recentemente morto a Genova travolto da un treno.
Continuiamo la nostra trattazione riguardante gli imputati di Favara.
Angelo Di Giovanni. Avverso la decisione del Gup di primo grado risulta infatti interposto rituale atto di doglianza. Nel gravame venivano sviluppati quattro profili di censura. Col primo motivo, sviluppandosi una serrata critica rispetto alla asserita pochezza del quadro probatorio esternato nella sentenza di primo grado, pressoché integralmente basato sull’esaltazione della circostanza che Di Giovanni è cognato dell’altro imputato Luigi Pullara, si postulava l’assoluzione del prevenuto con ampia formula dal delitto ascrittogli, che, a tutto concedere, potrebbe meglio riqualificarsi in fattispecie di favoreggiamento personale nei confronti di Giuseppe Quaranta, l’unico soggetto col quale inconsapevolmente il Di Giovanni avrebbe intrattenuto rapporti.
Col secondo motivo si chiedeva l’espunzione della circostanza aggravante di cui all’art. 416 IV comma CP, legata alla disponibilità di anni. Col terzo motivo si chiedeva l’espunzione della circostanza aggravante di cui all’art. 416 VI comma CP, legata al controllo economico del territorio. Col quarto ed ultimo motivo si chiedeva la concessione delle circostanze attenuanti generiche ed una diminuzione di pena.
In tal modo ricostruiti i modi dell’appello, osserva questo Collegio come l’unica censura che risulta meritevole di seguito sia quella relativa alla non considerazione della aggravante di cui all’art. 416 bis CP VI comma, ciò a cagione delle considerazioni di carattere generale – valide per tutti gli imputati del delitto di cui all’art. 416 bis CP – già sviluppate nella parte generale di questa sentenza.
Nessuna delle altre doglianze è meritevole di seguito. Doverosamente devono evidenziarsi – mutuandoli dai luoghi citati della sentenza di primo grado – gli elementi di accusa a carico dell’imputato, che si pongono in netto contrasto rispetto a quanto sostenuto in appello circa l’assenza anche solo di momenti indiziari a carico dell’imputato. Nei confronti del Di Giovanni milita, ad esempio, un incontro, avvenuto il 7 febbraio 2014, svoltosi a San Biagio Platani presso la casa di campagna del coimputato Giuseppe Nugara (esponente della famiglia di San Giovanni Gemini) ubicata lungo la Strada Provinciale n. 19. All’incontro – le cui dinamiche sono francamente troncanti ed in se stesse sono sufficienti a conclamare la responsabilità del Di Giovanni per il reato ascrittogli – avevano partecipato personaggi di altre famiglie mafiose, cosa che caratterizzava il summit di valenza delinquenziali associativa indubbia.
Si parla di uomini d’onore del calibro di Giuseppe Luciano Spoto (capo famiglia di Bivona) del figlio Massimo Spoto, dell’ormai defunto Calogerino Giambrone della famiglia di Cammarata, insieme al figlio Angelo, nonché di Giuseppe Quaranta, la cui preziosa collaborazione, quasi sempre riscontrata adeguatamente, avrebbe fatto ampia luce su molti dei fatti di questo processo.
Le captazioni relative alla riunione sono davvero inequivoche e non si vede come in gravame si provi a negare l’evidenza. L’incontro – come molti altri documentati dalla Polizia Giudiziaria – aveva avuto luogo in una abitazione rurale nella disponibilità di Giuseppe Nugara e, grazie alle intercettazioni sappiamo che i correi fossero preoccupati per alcuni strani movimenti che avevano percepito, arrivando a paventare che il controllo della Polizia avesse dato i propri frutti, o, addirittura, che uomini d’opposta fazione stessero tramando un attentato ai loro danni. Si riporta il passaggio di interesse della conversazione, nel quale i sodali con la continua presenza di Di Giovanni, anch’egli molto preoccupato dopo aver parlato di estorsioni da imporre ad importanti lavori in zona, esternavano la preoccupazione di essere aggrediti o notati dall’esterno. Ultimata la riunione, i sodali continuavano a commentare l’infelice posizione della casa di Nugara, preoccupati per la sua troppa visibilità, cosa ovviamente legata alla palese natura illecita del summit, come del resto quanto già sopra riportato aveva dimostrato.
Partecipare a riunioni di mafia, come sicuramente è stata questa appena descritta, d’altra parte, integra sicuramente il requisito del contributo rilevante penalmente dato all’Associazione. Come è noto infatti Cosa Nostra prospera anche e soprattutto della segretezza delle proprie riunioni deliberative e prestarsi a questa clandestinità – ovviamente intrinseca all’Associazione in se stessa – rafforza il vincolo e, con esso, la potenza operativa del contesto criminale organizzato. Si tratta di un contributo causale di tutto riguardo, nonostante in gravame si sostenga il contrario. Altro chiaro riscontro dell’inserimento del Di Giovanni nell’associazione mafiosa è dato da una conversazione intercettata alle ore 18.18 del 22 dicembre 2014 tra il medesimo Di Giovanni e Calogerino Giambrone. Nel corso della captazione proprio Di Giovanni suggeriva a Giambrone di usare la mano di ferro con gli imprenditori recalcitranti a pagare il pizzo o, peggio, che avessero la denuncia facile. In tale contesto è qui interessante rilevare come Giambrone avesse messo a parte il Di Giovanni delle difficoltà nelle riscossioni e che l’imputato Di Giovanni lo avesse invitato a prendere i riottosi “per le palle” visto che “se non si adoperano certe maniere non si ottiene niente”.
Non occorrono giri di parole per sottolineare la piena adesione del prevenuto al programma associativo, con ruolo non marginale nella condotta associativa ed estorsiva generalizzata, proprio come da capo d’imputazione. Ma v’è d’altro e di più. Come ha ben spiegato la sentenza di primo grado Di Giovanni aveva avuto un ruolo di rilievo, insieme a Luigi Pullara, nel veicolare e divulgare all’esterno, nelle dovute maniere, l’ordine che dal carcere Francesco Fragapane aveva inoltrato all’esterno, finalizzato a destituire Giuseppe Quaranta. Anche questa circostanza – che è oggettiva e non opinabile – dimostra il pieno inserimento di Di Giovanni nelle dinamiche associative ed il suo ragguardevole contributo alla ripartizione territoriale associativa, non certo perché si trovasse ad essere il cognato di Luigi Pullara, ma a titolo di pieno coinvolgimento personale, smentendo i fatti, totalmente, l’impostazione difensiva. Sicuramente Pullara godeva all’interno del sodalizio di maggiore autorevolezza, ma non vi sono dubbi – anche solo in base ai momenti processuali citati – sul fatto che anche Di Giovanni fosse un membro attivo della famiglia di Favara e non certo e non solo un favoreggiatore, posto che la descritta propria condotta di partecipazione ad importanti riunioni e all’attività estorsiva è chiara, autonoma, diretta e conclamata.
Sul conto di Angelo Di Giovanni, del resto, a coronamento e pieno riscontro di quanto fino ad ora veduto, militano anche le plurime dichiarazioni del collaboratore Giuseppe Quaranta esternate nel corso degli interrogatori resi il 29, 31 gennaio e 2 febbraio del 2018. Secondo questa narrazione – la cui plausibilità nello specifico è avvalorata dal fatto, visto, che Quaranta parlasse di cose vedute e vissute in prima persona – Di Giovanni era stato coinvolto, dietro input di Francesco Fragapane, nella riorganizzazione della famiglia mafiosa di Favara, unitamente al cognato Luigi Pullara. Entrambi avevano subito aderito e Di Giovanni si era anzi prestato alla custodia di armi per conto della cosca, utilizzando all’uopo un appartamentino di proprietà della madre. Il fatto che durante una perquisizione fatta in quella casa, durante le indagini preliminari, le armi non siano state trovate, ovviamente non dimostra alcunché, dal momento che è più che plausibile che Di Giovanni, magari avvertendo addosso il fiato delle forze dell’ordine, si fosse liberato dell’ingombrante carico. Quaranta aveva anche spiegato come Di Giovanni fosse dedito alle attività estorsive della famiglia e questa circostanza risulta riscontrata dalla di lui – già vista – partecipazione alla riunione del 7 febbraio 2014, nel corso della quale i soggetti riuniti, pur palesando il timore di essere scoperti, avevano discusso da conti da regolare con imprenditori attivi nella cantieristica della zona. Si osservi, in conclusione, che Quaranta ha sempre detto, nei propri contributi orali, come l’odierno imputato non fosse mai stato combinato formalmente in Cosa Nostra. Si tratta di una sottolineatura non marginale che certifica una volta di più gli intenti certamente non calunniatori del dichiarante che, se avesse inteso accusare falsamente il Di Giovanni, avrebbe ben potuto appesantire la di lui posizione, segnalando, anche contrariamente al vero, la sua formale assunzione del ruolo di uomo d’onore. Non vi sono dunque ragionevoli dubbi, per tutte queste considerazioni, sulla piena integrazione del reato di cui al capo B) attribuito a Di Giovanni. Quanto alle altre doglianze relative al trattamento sanzionatorio, con riferimento alla considerazione del rilievo dell’aggravante legata alla disponibilità di armi, che va mantenuta ferma, non si può fare altro in questa sede che rimandare alle considerazioni generali dedicate all’argomento, e suffragate dai soffermi di legittimità colà citati. Lo stesso è a dirsi per il diniego delle circostanze attenuanti generiche, sulla mancata concessione delle quali, analogamente, ci si è a lungo già dilungati nella parte generale di questa sentenza. Va invece esclusa anche per Di Giovanni Angelo, sempre in virtù delle considerazioni generali svolte nei paragrafi introduttivi di questa sentenza, l’altra aggravante di cui all’art. 416 comma VI CP La pena inflitta in primo grado, al netto di queste considerazioni, va dunque ridotta (a quella finale di anni otto di reclusione) solo a cagione della detta esclusione e ciò avrà una ricaduta anche sulla durata della libertà vigilata.