Mafia

Mafia e droga, Kerkent: “Massimino al vertice della famiglia di Agrigento”

I giudici depositano le motivazioni della sentenza "Kerkent": ecco cosa scrivono

Pubblicato 2 anni fa

La quarta sezione penale della Corte di Appello di Palermo, presieduta dal giudice Vittorio Anania, ha depositato le motivazioni alla base della sentenza con cui tre mesi  fa sono state condannate 19 persone nell’ambito della maxi inchiesta “Kerkent”. L’operazione, eseguita dalla Dia di Agrigento, ha fatto luce sulla scalata al vertice della famiglia mafiosa del boss Antonio Massimino e accertato l’esistenza di una organizzazione da lui guidata dedita al traffico di sostanze stupefacenti. La Corte di Appello ha condannato Massimino a 20 anni di reclusione. Adesso sono state rese note le motivazioni. 

Per quanto riguarda l’appartenenza di Massimino a Cosa nostra, i giudici scrivono: “Nel caso di specie ben due sentenze hanno accertato una perdurante partecipazione di Antonio Massimino al sodalizio mafioso che, all’epoca dei fatti per cui oggi è a processo, era ormai quasi ventennale [..] La sua partecipazione mafiosa è stata ritenuta accertata in via definitiva, quantomeno dal 1999 sino al 2004 e va osservato che lo stesso, espiata la pena e tornato in libertà nel 2015, ha tenuto una condotta altamente sintomatica della propria permanenza all’interno del sodalizio. È dunque in questo quadro che vanno valutate le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Quaranta [..]. Il Quaranta distingueva con precisione ciò che aveva appreso per cognizione diretta (tra cui i rapporti tra Massimino, Militello nonché quelli con l’anziano capomafia Lombardozzi) e ciò di cui era a conoscenza per voci correnti nel pubblico o per averlo appreso da notizie giornalistiche (quale la dedizione di Massimino ad attività estorsive) [..] Il Quaranta collocava con assoluta precisione Massimino al vertice della consorteria mafiosa agrigentina e ciò per averlo appreso sia dalla sua viva voce (“Mi disse che, una volta scarcerato, si era preso Porto Empedocle, Villaseta ed Agrigento, mi disse decido tutto io”) sia da altri, fra cui Giuseppe Sicilia, pregiudicato mafioso favarese, che ebbe a riferisci come l’influenza di Massimino si estendeva anche alla città di Favara.

La difesa dell’imputato aveva provato a indebolire il materiale delle intercettazioni captate. I giudici sul punto scrivono:Va osservato anzitutto che è lo stesso Massimino ad ammettere i propri contatti con l’anziano capomafia Lombardozzi e ciò nell’ambito di una conversazione intercettata con il sodale Giuseppe Messina nel dicembre 2015. Nell’occasione, in particolare, Massimino riferiva di essere stato chiamato dal Lombardozzi che poneva il proprio veto sul coinvolgimento di Luca Siracusa nell’attività di spaccio (“Mi ha chiamato Lombardozzi.. quello mi ha chiamato e mi ha detto Antò.. o lo ferm.. oppure io fermo a lui..”; nel medesimo contesto Massimino riferiva di incontrare Lombardozzi quasi quotidianamente “”Lillo me lo ha detto a me.. siccome io con lui mi ci vedo tutte le mattine.. io tutte le mattine andavo al cimitero.. e nel mentre mi vedevo con chi mi dovevo vedere io.. io so la tomba dove devo andare a trovarlo..”)

Ulteriori intercettazioni militano poi, univocamente, nel senso di collocare Massimino in una posizione apicale della locale famiglia mafiosa. Scrivono i giudici: “Il Di Nolfo, in particolare, riferiva che Lombardozzi aveva ceduto il proprio posto di capo al Massimino e ciò in ben due occasioni, vale a dire sia nel corso del dialogo intercettato il 28 ottobre 2015 con la maglia, sia nel dialogo del 26 ottobre 2015 con un proprio conoscente, dialogo nel quale era specificato che tale investitura era stata effettuata da “Don Lillo” Lombardozzi perchè Massimino era “un pericolo pubblico”

Infine: “Lo stesso Massimino, nel corso del dialogo del 16 luglio 2015, intimava al proprio fidato collaboratore Eugenio Gibilaro di recarsi da Antonino Mangione per recuperare da quest’ultimo un ingente credito derivante da una pregressa cessione di stupefacenti e, nell’occasione, si raccomandava di fare presente al debitore che la richiesta di pagamento era stata formulata dal “Papa Nuovo”, evidente riferimento alla sua recente investitura di capo della locale consorteria mafiosa.”

I giudici della Corte di Appello concludono: “L’impugnata sentenza va in definitiva confermata con riguarda all’accertamento della perdurante militanza mafiosa di Antonio Massimino in seno alla famiglia di Agrigento-Villaseta del quale egli deve essere considerato il capo”. 

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