Di Leo è il nuovo procuratore di Agrigento, l’insediamento nel segno di Livatino
Il testo integrale dell’intervento odierno del neo procuratore della Repubblica di Agrigento, Giovanni Di Leo
Il magistrato Giovanni Di Leo si è insediato questa mattina alla guida della Procura della Repubblica di Agrigento. Le prime parole del procuratore capo sono un tributo alla memoria del giudice Rosario Livatino “che ho conosciuto per un periodo troppo breve incontrandolo sette volte e facendo tre udienze con lui” ma dal quale “ho imparato dai suoi provvedimenti e dai racconti che mi sono stati fatti”. “Mai sopra le righe, mai scostante o scortese, ma sempre aperto e con il sorriso, nel suo ruolo di giudice che cercava la giustizia con la G maiuscola anche nelle piccole cose”.
Alla cerimonia di insediamento, celebrata proprio nell’aula del Palazzo di Giustizia dedicata al giudice beato, erano presenti il presidente del Tribunale Pietro Maria Falcone, il procuratore generale della Corte d’appello di Palermo Lia Sava, il procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio De Lucia, i magistrati Alfonso Malato e Nico Gozzo, l’ex Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, Sergio Lari; gli ex giudici ora in pensione Maria Agnello, Salvatore Cardinale, Aldo Lo Presti Seminerio ed il procuratore aggiunto Salvatore Vella nonchè il presidente dell’ordine degli avvocati di Agrigento, Vincenza Gaziano ed il presidente del Consiglio di disciplina dell’ordine degli avvocati, Nino Gaziano. All’insediamento non sono certamente mancati i vertici istituzionali della provincia: il Questore Emanuele Ricifari, i comandanti di carabinieri, guardia di finanza e capitaneria, rispettivamente i colonnelli Vittorio Stingo ed Edoardo Moro, Antonio Ventriglia, così come il sindaco di Agrigento Franco Miccichè e il deputato nazionale Calogero Pisano.
Le prime parole del neo procuratore, con non poca commozione, sono state un elogio alla figura del giudice Rosario Livatino. Di Leo ha subito tracciato le linee guida dell’ufficio che si appresta a dirigere: “La Procura di cui oggi assumo la direzione vi posso già dire cosa non sarà. Non sarà strumentodi polemiche, non sarà la porta dove infilarsi per sfogare odi, invidie. Vi sarà la massima attenzione per i reati che attentano ai deboli: anziani, donne, bambini, disabili come anche alla integrità dei beni privati e soprattutto pubblici, Vi sarà la massima attenzione all’ambiente, alla semplice civile e sociale convivenza. Vi sarà attenzione a tutti coloro che, caduti nel reato, intendono avviare un percorso di recupero. Il carcere deve essere l’estrema ratio non solo nella fase cautelare, ma anche quando, pronunciata la sentenza definitiva, è nostro dovere tendenze una mano a chi vuole sinceramente riemergere nella società civile.
Il procuratore di Agrigento ha poi proseguito: “Esercitare funzioni di magistrato non significa godere di un potere: significa esercitare un potere per servire un fine più alto. Noi magistrati non solo dobbiamo essere imparziali, indipendenti e autonomi ma dobbiamo anche sembrarlo, evitando ogni forma di contiguità che allontani il cittadino dalla difucia nell’azione inquirente e giudicante”. “L’unico metodo valido per perseguire la giustizia nel rispetto della legge – ha sottolineato il neo procuratore – è cercare di capire chi abbiamo di fronte e per farlo sempre occorre rispetto, umiltà e apertura mentale e culturale. Noi ci occupiamo di persone e di fatti, nella loro cruda oggettività, senza colorazioni mediatiche, politiche e di interesse. E per essere il peso che sposta il piatto occorre fare domande. Fare domande è per tutti un diritto ma per il pubblico ministero è un dovere”.
Per Giovanni Di Leo, come detto, si tratta di un ritorno ad Agrigento dove nel 1990 aveva cominciato a muovere i primi passi nella magistratura con funzioni di giudice. Tre anni dopo, il trasferimento a Sciacca da sostituto procuratore. Tra il ’97 e il 2003 ha lavorato a Palermo, prima come pm e poi come giudice, mentre nel 2003 è passato alla giurisdizione contabile, rientrando poi nella magistratura ordinaria due anni dopo, come pm a Roma. Nel 2009 ha svolto funzioni di pm a Caltanissetta e, dal 2015, quelle di sostituto procuratore generale in Cassazione. Il Csm lo scorso mese lo ha indicato nuovo procuratore di Agrigento preferendolo all’attuale procuratore di Sciacca, Roberta Buzzolani. Di Leo prende il posto lasciato libero da Luigi Patronaggio insediatosi a capo della procura generale di Cagliari un anno e mezzo fa. Da quando Patronaggio è stato trasferito fino ad oggi, la Procura di Agrigento è stata diretta dall’aggiunto Salvatore Vella.
Ecco il testo integrale dell’intervento odierno del neo procuratore della Repubblica di Agrigento, Giovanni Di Leo: Signor Presidente, Signor Procuratore Generale, Autorità presenti, Colleghi e Signori Avvocati, gentili ospiti,
Non nascondo che è con emozione non lieve che assumo l’incarico di Procuratore della Repubblica nella città nella quale, ormai 33 anni orsono, arrivai con davanti la prospettiva di un ruolo da giudice civile, per il quale devo dire mi ero adeguatamente formato con un collega, grande civilista.
L’emozione è dovuta non soltanto alla consapevolezza del tempo trascorso, oramai molto più lungo di quello che potrò, in ogni caso, dedicare a questa città in futuro, ma agli eventi che immediatamente dopo il mio arrivo, mi trasformarono in un giudice penale, alle prese con un nuovo codice di procedura. Non ero per quel ruolo adeguatamente formato, ed il Presidente, che è stato il mio affidatario, ne sa qualcosa… potrei dire che è colpa sua ma non lo dico…
Ho, però, avuto dei maestri in questa città, e dei compagni di viaggio con i quali sono sempre rimasti fermi i rapporti di stima e amicizia al di là dell’allentarsi della frequentazione quotidiana, dovuto ai diversi ruoli di ciascuno ed ai rispettivi trasferimenti. Rapporti di stima reciproca, e da parte mia di profonda gratitudine per ciò che da loro ho imparato. Per me, con il rammarico che, tra questi colleghi, non vi sia stato Rosario Livatino. Non mi è stato dato di imparare da lui, se non da morto, ma ho imparato dai suoi provvedimenti e dai racconti che mi sono stati fatti.
Eppure è tanto ciò che credo di avere imparato, dal semplice contatto, con una persona con la quale mi sarò visto tra il 12 luglio ed il 20 settembre del 1990 soltanto sette-otto volte, facendo con lui tre udienze, presiedute da Maria Agnello, donna e giudice straordinaria, che mi onoro di ringraziare per quanto da lei ho appreso, non solo in diritto, ma in termini di serenità di approccio e di impermeabilità alle emozioni di cui il nostro lavoro ci carica. Lo stesso approccio che era proprio del Rosario Livatino che ho conosciuto, per un periodo troppo breve. Mai sopra le righe, mai scostante o scortese, ma sempre aperto e con il sorriso, nel suo ruolo di Giudice che cercava la Giustizia con la G maiuscola anche nelle piccole cose.
Troppi episodi, storie, esperienze tragiche e coinvolgenti, che oggi mi hanno riportato in questa città, a dirigere una procura di giovani magistrati e magistrate, quasi o alle prime esperienze, come ero io allora. Quindi mi consentirete di venire al sodo, per dire ciò che ho imparato allora, dall’esperienza agrigentina, e che non ho mai dimenticato. Che ho imparato da Rosario Livatino, da Fabio Salamone, da Totò Cardinale, da Roberto Sajeva, di cui ricordo una straordinaria ironica lezione di “umiltà” impartita a me ed a Gigi Birritteri, sulla quale sorvolo e dall’amicizia dei “giovani colleghi” di allora.
Esercitare le funzioni di magistrato non significa godere di un “potere”: significa esercitare un potere per servire un fine più alto. Servire la legge, servire la società civile che si rivolge al potere giudiziario alla ricerca di giustizia, servire quell’ordine giudiziario di cui il P.M. è dal punto di vista ordinamentale, una parte non solo necessaria, perché così continua ad essere detto nelle norme sull’ordinamento giudiziario che lo inquadra associandolo ai giudici, ma anche fondamentale, se non altro in quanto è l’unico titolare dell’azione penale su un territorio. Nel dibattito dei costituenti, pur fortemente sostenuta dall’allora professore e deputato Giovanni Leone, venne esclusa la dipendenza del Pubblico ministero da ogni altro potere che non fosse quello giudiziario. Essere magistrato, ed in particolare, se volete, il Procuratore della Repubblica significa servire l’idea che ciascuno di noi ha, come uomo, della Giustizia quella con la G maiuscola, ma significa principalmente servire la legge, adoperarsi perché venga attuata, non solo quella penale, ma tutta la legge.
Significa chiedersi perché certe cose non funzionano, o funzionano male. Significa attivarsi per verificare se ci sono pietre negli ingranaggi. Significa per dirla con un grande ed ironico filosofo inglese, (Bertrand Russell) essere il peso che sposta il piatto della bilancia. Sono due le rappresentazioni della giustizia che la dea con la bilancia fornisce a chi la guarda. L’equidistanza tra le parti del processo è soltanto una di queste, l’altra è il tendere verso il bene o il male. Per farlo, comunque, è fondamentale non perdere mai di vista che nella nostra attività abbiamo sempre a che fare con uomini e donne, con la loro dignità, con le loro umane caratteristiche, con i loro difetti ed i loro pregi, con i loro errori, vizi, debolezze, e con i loro risultati, sacrifici, aspettative e motivazioni. L’unico metodo valido per perseguire la Giustizia nel rispetto della legge, è cercare di capire chi abbiamo di fronte, e per farlo occorre sempre rispetto, umiltà ed apertura mentale e culturale. Ci vuole quel sorriso che aveva Rosario Livatino e al contempo la sua limpida e onesta rigidità morale. Non dobbiamo guardare alla provenienza sociale di chi abbiamo davanti, a come è vestito, al colore della pelle o alla religione che professa, alla posizione che assume nel processo Noi ci occupiamo di persone – senza distinzione di sesso, razza, lingua o religione – e di fatti, nella loro cruda oggettività, senza colorazioni mediatiche, politiche o di interesse. E per essere il peso che sposta il piatto occorre fare domande.
Fare domande è per tutti un diritto, ma per il Pubblico ministero è un dovere, perché è una attività necessaria a conoscere, a valutare, ad individuare ciò che non funziona e che ha o potrebbe avere rilevanza penale. Fare, e farsi domande, sembra che in questo paese sia diventato un problema, ma per il Pubblico ministero, mettiamocelo in testa, è un dovere inerente alla sua funzione. Oppure si abbia il coraggio di abrogare questa stessa funzione del Pubblico Ministero, così come è stata pensata dai costituenti. Non chiedere, non domandare, non ti interessare, sono le frasi e i consigli che esprimono esattamente un altro aspetto della sub-cultura della nostra terra, che il legislatore ha criminalizzato giustamente nel 1982. Si chiama omertà. Fare domande, al contrario non è solo un diritto per ogni cittadino, ma al P.M. serve a determinarsi ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione penale, che la nostra Costituzione prevede ancora come obbligatoria. E, nostro dovere, ed è sancito dalla Costituzione e dal codice. E l’azione penale è obbligatoria perché attua, in concreto, quel principio di uguaglianza davanti alla legge, che non è una mera enunciazione programmatica, non è solo nostro dovere rispettare, ma anche fare rispettare: è il cardine di quel sistema democratico in cui ci vantiamo, o forse crediamo, di vivere. Solo attraverso il rispetto del principio costituzionale di uguaglianza davanti alla legge può sopravvivere l’idea di democrazia. È il principio di uguaglianza ad essere leso in primo luogo da ogni fenomeno criminale. Niente viola di più il principio di uguaglianza tra le persone, quanto la nostra indifferenza davanti a ciò che non funziona, davanti a ciò che percepiamo come male o sbagliato, senza attivarci per rivolgerio in bene, o quantomeno per cercare di correggerlo. È nella difesa di questo fondamentale principio di convivenza civile che le azioni del Pubblico ministero e degli avvocati possono, anzi, devono convergere, nell’assoluto rispetto dei rispettivi ruoli, ma nel superiore interesse della giustizia. Come dice, esplicitamente la stessa formula del giuramento forense “… osservare con lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia.. : e soltanto dopo che aggiunge ” … a tutela dell’assistito nelle forme … ecc….
Anche noi giuriamo di ” .. osservare lealmente le leggi dello Stato e di adempiere con coscienza i doveri inerenti al nostro ufficio.” E questi doveri mi sono chiarissimi. Noi magistrati non solo dobbiamo essere imparziali, indipendenti ed autonomi, e parte imparziale, indipendente ed autonoma è e resta il P.M., ma dobbiamo anche sembrarlo, evitando ogni forma di contiguità che allontani il cittadino dalla fiducia nell’azione inquirente e giudicante. Nell’adempimento del rispettivo nostro dovere, signori avvocati, è solo la legge che deve essere il nostro faro e la nostra rotta, quella processuale e quella sostanziale. E se per caso ci accorgiamo che la legge entra in conflitto con quel principio di uguaglianza il cui rispetto davanti alla legge deve presiedere ad ogni nostra valutazione, per noi come per voi, Signori avvocati, la strada non è piegare la legge, o restare indifferenti, ma sollevare la questione nelle sedi competenti
Nel reciproco rispetto dei ruoli è soltanto in questo modo che insieme riusciremo a procedere verso quei fini di giustizia che, tanto come magistrati, quanto come avvocati abbiamo giurato di servire. Senza rispetto reciproco non vi può essere un “processo” degno di questo nome. Se non vi è serenità di rapporti, nella doverosa consapevolezza dei rispettivi ruoli, semplicemente non c’è un processo. I toni esagerati, la teatralità, gli eccessi “mediatici” sono estranei al corretto concetto di processo, che è ricerca della verità, oggettiva, della prova, delle cause di un evento che è comunque già accaduto e che è nostro dovere chiarire, far emergere, perché sia fatta “Giustizia”. I nomi con i quali, al contrario, possiamo chiamare ciò che segue alla mancanza di rispetto reciproco tra le parti del processo non mi interessano. lo non sono qui per questo.
1 diritti della difesa saranno sempre rispettati dall’Ufficio che mi accingo a dirigere. È un dovere della mia funzione. Ma allo stesso tempo e modo mi aspetto il “rispetto” del nostro lavoro. Mi aspetto la critica, ma non la mancanza di rispetto, o di serenità nell’esercizio della critica Le diversità di opinione nei singoli casi, gli errori che ciascuno di noi può commettere, sono “fisiologia processuale” e devono trovare nel procedimento e nel processo la loro “fisiologica” soluzione, nella pronuncia di un giudice. Senza eccessi, polemiche e toni estranei alla normale dialettica processuale. Continuerà e sarà spero implementata, la doverosa collaborazione con l’altro Ufficio del P.M. di primo grado, la Dda, ove ho prestato servizio tanti e fruttuosi anni occupandomi di questa provincia in un periodo di importanti risultati investigativi e giudiziari. La sinergia è necessaria con tutte le Istituzioni del contrasto a quella che è la vera controparte del P.M., la criminalità e l’illegalità. Stretto, costante, e coerente sarà il rapporto che intendo avere con i responsabili dei servizi di polizia giudiziaria, cui pure incombe il dovere di costituire gli occhi del P.M. rispetto al malaffare, rammentando a tutti noi che questo lavoro deve guardare al processo e non alla comunicazione e alla narrazione delle pure importanti operazioni di polizia giudiziaria che rassicurano i cittadini. Detto ciò che spero riuscirà ad essere la Procura di cui oggi assumo la direzione, vi posso già dire cosa non sarà. Non sarà strumento di polemiche estranee all’esercizio rituale ed imparziale dell’azione penale. Non sarà la porta dove infilarsi per sfogare odi, invidie, sentimenti di vendetta e frustrazioni personali. Vi sarà attenzione per ogni denunzia, esposto, e per ogni dichiarazione, ma quelle che si riveleranno strumentali e non motivate da serie ragioni di ricerca della Giustizia saranno perseguite come la legge impone. Vi sarà la massima attenzione per i reati che attentano ai “deboli della nostra società: agli anziani, alle donne, ai bambini, agli incapaci, ai profughi, come anche alla integrità dei beni privati, ma soprattutto a quella delle risorse pubbliche, che sono il frutto dei sacrifici di chi le tasse le paga. E nei limiti delle nostre forze e capacità vi sarà la massima attenzione per tutto il resto, dal territorio, all’ambiente, alla semplice civile e sociale convivenza, beni senza i quali non vi è una società civile in cui vivere, fare crescere dei ragazzi o svolgere una qualsiasi utile attività produttiva. Vi sarà attenzione anche a tutti coloro che, caduti nel reato, intendono avviare un percorso di recupero, secondo anche le nuove misure e gli intendimenti della riforma Cartabia in tema di giustizia riparativa. Mi adopererò, tra ciò che è già in vigore e ciò che ancora deve entrare a regime, sperando che vi entri, perché non sia sempre il piccolo delinquente, il povero o il disgraziato, il solo a soggiornare nelle nostre non sempre impeccabili case di reclusione. II carcere deve essere l’estrema ratio non solo nella fase cautelare, ma anche quando, pronunciata la sentenza definitiva, è nostro dovere civile oltre che cristiano, tendere una mano a chi vuole, sinceramente riemergere, alla vita civile.
In questa direzione, e con questi intendimenti, sperando di riuscire a trasmettere ai Sostituti e collaboratori che mi affiancano, questa mia personalissima idea di ciò che significa essere un magistrato del Pubblico ministero, io ringrazio tutte le autorità che sono volute intervenire, e tutti gli amici, i colleghi, i Procuratori del distretto oggi presenti, le forze dell’ordine, ed il personale che oggi ha voluto essere qui, malgrado al mare si stia senz’altro meglio. Mi aspettano mesi e mesi di sfide ed esperienze da dirigente, per me del tutto nuove, davanti alle quali solo gli incoscienti possono pensare di essere all’altezza. lo non lo sono: non sono incosciente e cercherò, con tutte le mie forze di essere all’altezza di questo compito…. Conto sulla comprensione e l’aiuto di tutti i presenti.