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Sparò e uccise il vicino a Canicattì, Procura ricorre in Appello: “Omicidio premeditato”

La Procura di Agrigento impugna la sentenza di condanna che escluse l'aggravante della premeditazione

Pubblicato 3 anni fa

La Procura di Agrigento ha presentato ricorso in Appello contro la sentenza di primo grado con cui è stato condannato a ventidue anni di reclusione Carmelo Rubino, 71 anni di Canicattì, per l’omicidio dell’agricoltore e vicino di terreno Vincenzo Sciascia Cannizzaro. Per il procuratore Salvatore Vella ed il sostituto Paola Vetro non ci sono dubbi: l’omicidio commesso da Rubino fu premeditato. 

La circostanza aggravante è stata esclusa dai giudici della Corte di Assise di Agrigento, presieduta da Alfonso Malato, che lo scorso giugno condannarono a ventidue anni di reclusione Rubino riconoscendogli però le attenuanti generiche ed escludendo la premeditazione del delitto. L’accusa aveva chiesto la pena dell’ergastolo.

Una decisione che adesso viene contestata formalmente dalla Procura di Agrigento: “Il provvedimento impugnato non avrebbe proceduto ad una valutazione complessiva delle prove acquisite durante il dibattimento, non avendo tenuto conto della corretta considerazione resa dai testimoni nonché delle prove scientifiche emerse”.  La sentenza di primo grado, secondo i magistrati della procura agrigentina, merita “riforma poiché viziata da una erronea valutazione delle prove, ma altresì, sotto il profilo della illogicità, contraddittorietà e carenza del percorso argomentativo”.

L’omicidio si è consumato la mattina del 27 settembre 2019. Rubino, armato di una pistola clandestina, sparò due volte all’indirizzo di Sciascia Cannizzaro uccidendolo. Alla base del delitto dissapori tra i due vicini di terreno e, in particolare, una strada poderale “contesa”. Proprio la sera prima del fatto di sangue vi era stata una lite tra Rubino e Cannizzaro. La vittima si sarebbe dovuta recare dai carabinieri l’indomani per sporgere denuncia ma non ci fu più tempo. Rubino, dopo l’omicidio, si allontanò dalla scena del crimine e fu ritrovato, dopo una breve ricerca delle forze dell’ordine, a casa. 

L’omicida, dopo un iniziale tentennamento, confessò il delitto anche alla luce delle numerose prove a suo carico ma dichiarò sempre di aver agito per legittima difesa e che quel giorno fu aggredito dalla vittima. Una confessione, peraltro modificata più volte, che non ha mai convinto del tutto gli inquirenti e che viene considerata “lontana dall’essere spontanea”.

Sono diversi gli elementi a sostegno della tesi avanzata dalla Procura di Agrigento sulla premeditazione dell’omicidio: innanzitutto il considerevole lasso di tempo tra la lite della sera prima e il delitto del giorno, periodo in cui l’imputato avrebbe potuto riflettere e desistere dal commettere il fatto di sangue; così come il fatto di essere uscito di casa armato di una pistola carica e di aver consumato il delitto in appena dieci minuti per poi fuggire; l’abbandono dell’arma, rinvenuta in seguito proprio su indicazione di Rubino. Infine le intercettazioni ambientali disposte durante i colloqui con i familiari in carcere che farebbero emergere una “assoluta mancanza di resipiscenza rispetto al fatto commesso” e che invece l’unico obiettivo dell’imputato fosse quello di “predisporre artatamente vendite fittizie e simulate delle proprietà al fine di impedire una possibile perdita degli immobili e dei terreni a seguito di una eventuale condanna alle spese del procedimento penale”.

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