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Xidy, il tribunale sul boss Falsone: “Riconosciuto capo indiscusso nonostante il 41bis”

Per i giudici, che lo hanno condannato a 22 anni, il boss ergastolano sarebbe ancora il capo indiscusso di Cosa nostra agrigentina nonostante si trovi al 41bis ininterrottamente dal 2010

Pubblicato 1 giorno fa

“Emerge chiaramente come Falsone esercitasse tutti i poteri ed era dotato delle prerogative proprie del capo mafia.” Lo scrivono i giudici della seconda sezione penale del tribunale di Agrigento che, nelle scorse ore, hanno depositato le motivazioni della sentenza Xidy, l’operazione che ha fatto luce sul mandamento mafioso di Canicattì e sulla rinascita della Stidda in provincia di Agrigento. Tra gli imputati di questo stralcio processuale vi era anche il boss ergastolano Giuseppe Falsone, ritenuto ancora oggi al vertice della mafia agrigentina nonostante si trovi in carcere – al regime di 41bis – ormai ininterrottamente dal 2010, anno in cui venne catturato in Francia dopo oltre dieci anni di latitanza.

Falsone, nel processo Xidy, è stato condannato a 22 anni di reclusione poiché – secondo l’impianto accusatorio che ha trovato riscontro nel primo grado di giudizio – avrebbe continuato a dirigere Cosa nostra agrigentina anche da dentro il carcere grazie all’aiuto dell’ex avvocato Angela Porcello, sua legale e “messaggera”. Una tesi sposata in pieno dai giudici della seconda sezione penale, presieduta da Wilma Angela Mazzara, che hanno spiegato in questi termini il perchè della condanna a ventidue anni del boss ergastolano. 

COSA SCRIVONO I GIUDICI SULLA FIGURA DEL BOSS FALSONE

“Sulla scorta delle risultanze probatorie dettagliatamente rassegnate in fatto, emerge con assoluta certezza la responsabilità di Falsone Giuseppe, il quale ha mantenuto il ruolo apicale già accertato con la precedente condanna, orientato al controllo della provincia mafiosa di Agrigento; del tutto sconfessata, invero, appare la prospettazione difensiva secondo cui la sottoposizione di Falsone, a far data dal 2010, al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis O.P. avrebbe determinato la piena dissociazione dell’uomo dalla consorteria criminale. Tale assunto, tuttavia, non si è realmente confrontato con il portato probatorio, limitandosi a negare quanto risulta di modo pacifico dagli atti. Né del resto, possono trovare spazio gli argomenti difensivi relativi all’assenza di un reale contributo causale rispetto al rafforzamento dell’associazione criminale: sotto il profilo materiale, della richiesta valutazione ex post, deve evidenziarsi come Falsone abbia fornito, come capo della provincia, un enorme contributo all’associazione, operando in modo determinante, fornendo le direttive principali relative alla guida dell’associazione mafiosa di “cosa nostra” agrigentina. In questo ruolo, infatti, Falsone – pure sottoposto, dall’anno 2010, al regime di cui all’art. 41 bis O.P., all’epoca delle indagini presso la Casa Circondariale di Novara – non ha mai cessato la propria partecipazione a “cosa nostra”, in seno alla quale ha continuato a rivestire un ruolo apicale e di comando, riconosciuto all’unanimità dai sodali sia quelli in libertà che quelli detenuti. In particolare, l’uomo, per il tramite fondamentale di Porcello Angela, avvocato, nonché compagna di Buggea Giancarlo, capo delle famiglie mafiose di Canicattì, Ravanusa, Campobello di Licata, e sodale essa stessa – mediante la strumentalizzazione delle prerogative connesse alla professione forense da parte della donna – ha impartito direttive e fatto veicolare messaggi, all’esterno della struttura carceraria, ai sodali in libertà, nonché ha veicolato messaggi ad altri capi mafia detenuti e ha consentito agli stessi di comunicare anch’essi con l’esterno della struttura carceraria. Preliminarmente, rileva, in questa sede, richiamare anzitutto il dato della precedente condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.. In merito, si ricorda come: “la valutazione della prova della continuità dell’adesione all’associazione mafiosa di un soggetto già condannato per lo stesso reato può essere tratta da elementi di fatto che di per sé potrebbero anche non essere sufficienti a fondare un’accusa “originaria” di partecipazione”. Ciò in quanto “il vincolo associativo tra il singolo e l’organizzazione si instaura nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significativo della cessazione del carattere permanente della partecipazione soltanto l’avvenuto recesso volontario, che, come ogni altra ipotesi di dismissione della qualità di partecipe, deve essere accertato in virtù di condotta esplicita, coerente e univoca e non in base a elementi indiziari di incerta valenza, quali quelli della età, del subingresso di altri nel ruolo di vertice e dello stabilimento della residenza in luogo in cui si assume non essere operante il sodalizio criminoso”; il sopravvenuto stato detentivo del soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della sua partecipazione al sodalizio, atteso che la relativa struttura – caratterizzata da complessità, forti legami tra gli aderenti e notevole spessore dei progetti delinquenziali a lungo termine – accetta il rischio di periodi di detenzione degli aderenti, soprattutto in ruoli apicali, alla stregua di eventualità che, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non ne impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo ed alla programmazione delle sue attività e, dall’altro, non ne fanno venir meno la disponibilità a riassumere un ruolo attivo alla cessazione del forzato impedimento; nello stesso depone poi anche recente giurisprudenza di legittimità, che ha condivisibilmente evidenziato come “In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, il sopravvenuto stato detentivo non esclude la permanenza della partecipazione al sodalizio, che viene meno solo in caso di cessazione della consorteria criminale ovvero nelle ipotesi, positivamente acclarate, di recesso o esclusione del singolo associato. La natura mafiosa dei rapporti che sono stati cristallizzati nel presente processo emerge tanto dai temi trattati nel corso dei colloqui – in presenza e telefonici – tenuti con Porcello e certamente esorbitanti da argomenti di – anche solo possibile – rilievo difensivo (operazioni dell’A.G. in danno di cosa nostra, richieste estorsive, preteso controllo sul territorio e la riaffermazione, agli occhi della comunità, della supremazia di “cosa nostra” rispetto al potere dello Stato, la volontà di creare una pax mafiosa, riferimenti frequenti a noti e meno noti esponenti mafiosi, il sostentamento dei detenuti, etc.) quanto dal lessico utilizzato e il ricorso a un linguaggio comunitaristico (si segnala la metafora del “carciofo”), all’esigenza di “ordine e disciplina”, nonché alla capacità intimidatoria del gruppo. Peraltro, sulle mafie storiche – in cui, per antonomasia, rientra “cosa nostra” – va detto come in materia di dimostrazione dell’esistenza delle mafie storiche “l’onere di motivazione del giudice patisce una significativa attenuazione in ordine all’an del sodalizio la cui esistenza trova conferma in decenni di storia giudiziaria non ravvisandosi al contrario alcun affievolimento dell onere motivazionale con riferimento alla dimostrazione della partecipazione del singolo alla consorteria”.Ciò posto, poiché nel corso della ricostruzione del fatto si è ampiamente dato conto della natura apicale del ruolo di Falsone di capo provincia, si richiama brevemente quanto ricostruito facendo sintetica menzione dei dati che seguono. Invero è risultato che egli: tramite quello che aveva ritenuto un sicuro canale di comunicazione con i sodali in libertà (primo tra tutti, Buggea) – ovvero il proprio difensore Porcello -, aveva inviato direttive e richieste ai sodali in libertà, ricevendo a sua volta messaggi da parte dei sodali in libertà, ed aveva addirittura loro veicolato, ricorrendo ad un linguaggio simbolico ed allusivo tipicamente mafioso, vere e proprie direttive quali quelle di riprendere il pieno controllo delle dinamiche criminali sul territorio, a fronte di scomposte iniziative di piccoli gruppi criminali disorganizzati, e di riaffermare agli occhi della comunità la supremazia di cosa nostra rispetto al potere dello Stato; aveva sfruttato talune falle nel sistema carcerario speciale, tentando di veicolare all’esterno messaggi tesi ad accreditarsi quale promotore di una protesta avverso il c.d. carcere duro, nonché, in special modo, tentando di saldare alleanze con altri esponenti di vertice di “cosa nostra” siciliana – Emmanuello Alessandro, esponente di spicco della famiglia di Gela, e Virga Pietro, capo del mandamento mafioso di Trapani – con i quali era riuscito a comunicare all’interno della struttura penitenziaria ove si trovavano, tutti sottoposti al regime di cui all’art 41 bis O.P., consigliando agli stessi di nominare quale proprio difensore di fiducia l’avvocato Porcello, evidentemente al fine di potere usufruire anche loro del ruolo di messaggero verso gli altri sodali (in libertà e detenuti) che la donna svolgeva per conto dell’associazione. Inoltre, il ruolo di capo mafia rivestito da Falsone ed accreditato tra i suoi sodali in libertà si coglie in tutta la sua pienezza: dalla circostanza che i suoi interessi patrimoniali, economici e familiari venissero curati personalmente dai sodali in libertà ed, in particolare, da Buggea con la chiara collaborazione di Porcello, nonché che questi ultimi cercassero spasmodicamente di individuare l’identità del soggetto che aveva favorito l’arresto di Falsone dopo dieci anni di latitanza. Così, ad esempio, Buggea, Gambino Giuseppe e Porcello si erano occupati del recupero e della gestione del patrimonio occulto che Falsone era riuscito a sottrarre alla confisca dello Stato. Peraltro, non soltanto esponenti di vertice di quelle famiglie che storicamente rappresentavano l’enclave del potere mafioso esercitato dallo stesso Falsone (i capi Boncori Luigi, Buggea e Giuliana Giuseppe), ma anche esponenti di apicali di altre cosche (ad esempio il capo mafia favarese Sicilia Giuseppe), si erano fatti carico della raccolta del denaro – provento delle attività illecite commesse da “cosa nostra” sul territorio agrigentino -, destinato al sostentamento di Falsone e dei suoi prossimi congiunti. Significativo, al riguardo, infine, che la madre e la sorella dell’uomo si recassero frequentemente presso l’immobile sostanzialmente riferibile a Buggea, dove avevano affrontato proprio tali questioni di carattere economico, legate anche al sostentamento delle stesse; nella capacità, unanimemente riconosciutagli dai suoi sodali in libertà, di deliberare sanzioni a carico dei correi autori di condotte ritenute dimostrative di scarsa affidabilità e pregiudizievoli per la sicurezza della consorteria. Si segnalano, in particolare, gli eventi successivi al 21 gennaio 2021, in relazione al tradimento di Buggea ai danni di Porcello, allorquando quest’ultima – anche su indicazione di altri esponenti apicali di “cosa nostra” – si era rivolta a Falsone per “fargli togliere la giacca”; la circostanza che, tutt’ora, sodali mafiosi si riferissero a lui come al “numero uno” o che si riferissero a determinati sodali in termini di appartenenza mafiosa proprio a Falsone. Sul punto, basti richiamare Occhipinti Angelo, capo della famiglia mafiosa di Licata, nel corso della conversazione tenuta da questi con Buggea il 10.3.2019, o che Buggea stesso, durante l’incontro del 23.4.2019, con le congiunte di Falsone facesse espressamente cenno a taluni soggetti che spendevano il nome di Falsone nelle proprie attività criminali. Infine, che, nell’ambito delle concitate riunioni tenute successivamente all’esecuzione del fermo, nell’ambito dell’operazione “Kerkent”, venissero espressi i timori relativamente al fatto che le dichiarazioni di Quaranta, potessero portare al coinvolgimento di appartenenti alla c.d. componente falsoniana di “cosa nostra” agrigentina. Appare quindi evidente che l’imputato ha pacificamente contribuito al mantenimento dell’associazione criminale “cosa nostra”, non rescindendo in alcun modo i legami con “cosa nostra”, nonostante la propria carcerazione e, anzi, proseguendo indefesso nella conduzione di attività criminali. Anche Porcello, peraltro, ha confermato il ruolo dell’imputato, tanto esplicitando il contenuto dei messaggi che Falsone, per suo – sia pure inconsapevole – tramite aveva fatto veicolare all’esterno ed, in particolare, a Buggea, quanto, chiarendo di come quest’ultimo, unitamente ad altri sodali, si fosse occupato del tentativo di ricognizione e recupero dei beni riconducibili al capo mafia, nonché degli aiuti economici garantiti ai familiari di Falsone, mediante i proventi di attività illecita posta in essere dall’associazione mafiosa. A proposito delle dichiarazioni della coimputata, per quanto in questa sede di interesse, va evidenziato che esse trovano pieno riscontro nei contenuti delle intercettazioni ampiamente ricostruite in fatto, dalle quali emerge chiaramente come Falsone esercitasse tutti i poteri ed era dotato delle prerogative proprie del capo mafia.”

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