Giudiziaria

Inchiesta “Hybris”, non si spaccia a Campobello senza il permesso di Ribisi: “Io posso, sono Falsone”

Illuminante conversazione tra il re del Bronx di Licata e Salvatore Falsone che chiedeva un chilo di "bomba" (cocaina)

Pubblicato 1 anno fa

L’inchiesta “Hybris”, inequivocabilmente, dimostra un fatto ormai assodato: anche in presenza di agguerriti ed efficienti gruppi criminali dediti al traffico di droga come, ad esempio, quello capeggiato (e sgominato ieri dalla Squadra mobile) da Michele Cavaleri vero re del Bronx di Licata, nulla può essere smerciato senza il consenso di Cosa nostra.

Si è visto che a Licata Cavaleri agiva con il permesso di Angelo Occhipinti detto “piscimoddru”, capo della locale famiglia e si vedrà, come spieghiamo adesso, anche a Campobello di Licata.

Ed infatti, il Gip del Tribunale di Palermo, Antonella Consiglio pur non ravvisando estremi di reato tale da poter configurare l’associazione mafiosa spiega plasticamente che:

L’11 aprile 2021 Michele Cavaleri, Lillo Serravalle e omissis si recavano a Campobello di Licata che, dalle acquisizioni investigative è risultato essere uno dei luoghi in cui la cocaina importata dal sodalizio veniva venduta al dettaglio.

Durante il viaggio di andata da Licata verso Campobello di Licata, la “ambientale” installata sull’autovettura registrava la voce di Michele Cavaleri che incaricava Lillo Serravalle di telefonare a un soggetto appellato come “mazzottu” ( “martello”), con il quale lo stesso Serravalle riferiva di aver preso l’appuntamento per le ore 18:00.

Il soggetto che avrebbero dovuto incontrare veniva identificato con certezza, dalla polizia giudiziaria che nell’occasione svolgeva un servizio di osservazione e pedinamento, in Salvatore Falsone. L’incontro fra costui e i licatesi veniva  registrato  dallo spyware  installato  sul dispositivo cellulare in uso a Michele Cavaleri.

In particolare, abbassando il tono di voce, il Falsone riferiva che non vi era più disponibilità di “bomba” , di cui era rimasto “l’ultimo chilo” e, pertanto, aveva pensato di telefonare al Cavaleri per ottenere una fornitura; al che, il Cavaleri ribatteva che non avrebbe dovuto telefonargli ma recarsi direttamente presso la sua abitazione, confermando dunque la piena disponibilità all’illecito affare, a cui avrebbe potuto dare esecuzione anche immediatamente.

Michele Cavaleri, ribadendo più volte la piena disponibilità a effettuare qualsiasi fornitura di “bomba”, precisava in ogni caso che, pur potendo far giungere a Campobello di Licata tutto il quantitativo richiesto, avrebbe dovuto essere previamente informato “Nicola Ribisi”, appartenente alla storica famiglia dei Ribisi che, fin dagli anni ’80, ha retto l’articolazione di Cosa nostra operante nel territorio di Palma di Montechiaro.

Nicola Ribisi, per inciso, con sentenza emessa dal giudice  dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo il 27  maggio  2010,  ormai  irrevocabile,  è stato condannato per aver partecipato alla famiglia mafiosa di Palma di Montechiaro; scarcerato l’8 gennaio 2014, veniva sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con  obbligo  di soggiorno ed è stato riarrestato recentemente nell’ambito dell’operazione “Condor”.

L’affermazione del Cavaleri rivelava dunque plasticamente che il narcotraffico da lui gestito sul territorio agrigentino avrebbe dovuto ricevere (ed evidentemente aveva già ricevuto con riferimento ad altre grosse compravendite) il nulla osta da parte di Cosa nostra.

Nel  prosieguo  della  conversazione,  il  Falsone  riferiva  a  Michele  Cavaleri, verosimilmente  con riferimento  alla latitanza  di un  soggetto  identificabile  nel capo della provincia mafiosa di Agrigento Giuseppe Falsone, di aver custodito diversi  “kalashnikov”  e di gestire  autonomamente  il traffico di stupefacente a Campobello  di Licata (Cavaleri: “ora vogliono sapere … vogliono sapere… quel soggetto mafioso.. che fa  entrare la cosa qua .. perché  non esiste che entra qua”  , Falsone: “da me..  da me vengono” ).

Una volta saliti sull’autovettura, Falsone raccomandava al Cavaleri  e al Serravalle di interrompere ogni conversazione, evidentemente al fine di eludere eventuali attività tecniche sul mezzo (Falsone: “qua dentro non parliamo “).

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