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Il boss di Casteltermini Di Piazza ai domiciliari ma il Coronavirus non c’entra

Dal regime di carcere duro ai domiciliari per motivi di salute.  Il boss di Casteltermini Vincenzo Di Piazza, 80 anni, è tornato negli scorsi giorni nella propria abitazione del piccolo comune montuoso della provincia di Agrigento lasciando il 41bis cui era sottoposto dal novembre 2011 quando fu arrestato nella “costola” dell’inchiesta antimafia “Kamarat” che interessò […]

Pubblicato 5 anni fa

Dal regime di carcere duro ai domiciliari per motivi di salute

Il boss di Casteltermini Vincenzo Di Piazza, 80 anni, è tornato negli scorsi giorni nella propria abitazione del piccolo comune montuoso della provincia di Agrigento lasciando il 41bis cui era sottoposto dal novembre 2011 quando fu arrestato nella “costola” dell’inchiesta antimafia “Kamarat” che interessò le famiglie mafiose della “Montagna” in provincia di Agrigento

Il tema delle scarcerazione dei boss mafiosi è divenuto negli ultimi giorni argomento scottante e al centro di un dibattito. Sono in molti, infatti, che per motivi di salute e, in piena emergenza Coronavirus, stanno chiedendo il differimento della pena. Tra questi, appunto, Vincenzo Di Piazza. Il boss di Casteltermini ha una “carriera” criminale che parte da lontano: nel 1995 è stato arrestato per aver favorito la latitanza del capo di Cosa nostra agrigentina Salvatore Fragapane, oggi ergastolano, scovato dalle forze dell’ordine dopo un periodo di latitanza proprio nella masseria di Vincenzo Di Piazza, ritenuto un “fedelissimo” del “mammasantissima” di Santa Elisabetta.

Ecco, il peccato originale, il peccato mortale di Vincenzo Di Piazza: l’aver dato ricetto al capomafia di Santa Elisabetta, Totò Fragapane, oggi seppellito da ergastoli ed al 41 bis.

Quell’arresto, nelle terre di Di Piazza, segnò la storia della mafia siciliana degli ultimi 30 anni e va raccontato oggi alla luce delle sopravvenute certezze investigative che hanno portato sino a Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Totò Riina.

Infatti, era accaduto che, dopo anni di latitanza, a sorpresa, venne arrestato Fragapane, una lunghissima storia mafiosa alle spalle, padre e fratello uccisi, vendette e contrapposizioni con il clan del sicario mafioso Lillo Lauria, sino a raggiungere l’apice, guadagnato con omicidi e violenze, con la designazione a capo della famiglia mafiosa agrigentina fatta personalmente dal boss dei boss Totò Riina. Il sabettese fu l’ultimo boss siciliano nominato da “Totò u curtu”. E, soprattutto, tenuto in gran considerazione da Matteo Messina Denaro che, in alcuni pizzini, si definisce suo amico esaltandone la lealtà mafiosa  e di aver condiviso con lui un pezzo di latitanza.

Alla cattura di Fragapane, eseguita nel 1995 dal personale della Dia di Agrigento allora guidato da Giusy Agnello oggi questore a Ragusa, si arrivò grazie alle rivelazioni, in quel momento non conosciute di un pentito che non arrivò mai a rivestire tale figura perché assassinato la sera del 10 maggio 1996 dai suoi ex associati: Luigi Ilardo

Quest’ultimo divenne figura centrale dell’inchiesta che avrebbe dovuto portare alla cattura di Bernardo Provenzano, mai avvenuta per ancora oggi misteriose ragioni. Indicò covo e luoghi di appuntamenti tenuti da “Binnu u tratturi” ma nessuno lo prese. 

Ilardo non era uno qualunque. Oltre ad essere cugino del capomafia Giuseppe Madonia è  stato un uomo d’onore della famiglia di Vallelunga Pratameno, che aveva come capo proprio il parente mafioso. E’ stato ammazzato a colpi di pistola il giorno prima che diventasse formalmente collaboratore di giustizia, dopo tre anni vissuti da confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Tre anni durante i quali, sotto il nome di “fonte Oriente” aveva fatto arrestare boss di prima grandezza nelle province di Messina, Agrigento, Catania e Caltanissetta; senza contare che grazie alle sue rivelazioni si sarebbe potuti arrivare con undici anni di anticipo alla cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, il 31 ottobre 1995.

Nel marasma di quel periodo di sconvolgimenti delle dinamiche mafiose, i boss corleonesi – segnatamente Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella – si convinsero che a far arrestare Fragapane fossero stati Antonio Di Caro e il suo più fidato complice, l’imprenditore favarese Antonino Costanza, i quali, in tal modo avrebbero messo fuori gioco Fragapane e ambire ad ottenere l’investitura di capo della mafia agrigentina.

Tragica storia anche quella di Di Caro.

 Proprio lui aveva acquistato due fusti di acido per sciogliere tutti quei cadaveri da fare sparire al più presto per conto dei corleonesi, ma Antonio Di Caro, figlio del capomafia di Canicattì, Giuseppe assassinato dalla Stidda,  non poteva immaginare che quello stesso acido sarebbe stato utilizzato dopo pochi mesi per fare perdere ogni traccia del suo corpo. Il macabro retroscena emerse  durante la conferenza stampa per l’operazione della Dda di Palermo, che aveva portato all’esecuzione di otto ordinanze di custodia cautelare nei confronti di altrettanti boss mafiosi, tutti detenuti per il duplice omicidio di Di Caro, avvenuto il 22 giugno del 1995 e del suo braccio destro, l’imprenditore Antonino Costanza, avvenuto poche ore dopo, all’alba del 23 giugno del 1995.

“Fu Antonio Di Caro – rivelò il pm Costantino De Robbio – ad occuparsi dell’acquisto dei due fusti di acido, e uno dei due fusti fu usato per sciogliervi proprio il suo corpo”. L’altro, pochi mesi dopo, fu invece usato per sciogliervi il corpo del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito di mafia Santino Di Matteo, ucciso dopo quasi tre anni di prigionia voluta da Giovanni Brusca per ‘punire’ il padre. Lo stesso Di Caro, due anni prima di essere ucciso, si era adoperato per tenere prigioniero il piccolo Giuseppe Di Matteo.

Gli esecutori materiali dell’omicidio di Di Caro erano già stati scoperti in passato, arrestati e condannati, tra cui Giovanni Riina, figlio del capomafia Totò Riina.Il suo primo omicidio”, dissero gli investigatori. Era stato lui, come ha raccontato dopo qualche tempo, Giovanni Brusca “a tirare la corda attorno al collo della vittima. Per l’omicidio e la soppressione del cadavere di Antonio Di Caro sono stati condannati Leoluca Bagarella, Francesco Di Piazza, Giuseppe Monticciolo, Giovanni Riina e Vito Vitale.

Tornando a Di Piazza va detto che fu arrestato nuovamente nel 2011 nell’ambito dell’operazione Kamarat in cui fu coinvolto anche il figlio Giuseppe. Ad inchiodarlo le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia.

Il Tribunale di Palermo lo ha condannato (in continuazione) a 18 anni di reclusione per associazione mafiosa. 

La Dia di Agrigento, guidata dal vicequestore Roberto Cilona, nel 2014 ha eseguito un provvedimento di sequestro beni dal valore di circa un milione di euro: gli agenti, in quell’occasione, misero sigilli a 6 fabbricati, compresi quelli rurali; 335 appezzamenti di terreno, adibiti a seminativo o pascolo; un’azienda per l’allevamento di bovini e caprini; una ditta individuale per la coltivazione di cereali e cinque conti correnti bancari.

Sequestro beni, immediatamente appellato dai difensori dell’uomo e dagli aventi diritto (che non hanno mai smesso di segnalare come nessuno dei Di Piazza abbia mai ricevuto accuse riguardanti reati tipici di mafia come estorsioni, danneggiamenti, omicidi) che in gran parte non è stato confermato da due provvedimenti specifici del Tribunale di Agrigento e Corte d’appello di Palermo, restituendo così i beni allo stesso Di Piazza ed ai suoi familiari.

Adesso, è intervenuto il provvedimento che ha riportato a casa l’anziano castelterminese, che non è legato assolutamente alla vicenda coronavirus. Di Piazza, detenuto al 41 bis nel carcere di Opera a Milano, al contrario, è portatore di una storia tragica che viene spiegata meglio dal giudice Giulia Turri che ha disposto la scarcerazione (nelle fasi intermedie della vicenda si è persino registrato l’intervento del Garante nazionale per le persone detenute, Mauro Palma che ha sollevato con energia il problema della carcerazione di Di Piazza) scrivendo quanto segue: “esaminata la documentazione clinica prodotta dalla difesa del condannato, veniva disposto il trasferimento in luogo esterno di cura per effettuare gli esami strumentali necessari per impostare le terapie idonee alla cura dell’arto inferiore. Il reclamo presentato dal difensore in data 17.12.2019 veniva accolto con ordinanza  il 30.12.2019 con cui il Magistrato di sorveglianza invitava la Direzione a sollecitare l’Istituto clinico Città Studi a fissare in tempi brevi gli esami e gli interventi già indicati in occasione dell’ultima visita effettuata il 19.12.2019.

Il 7.1.2020 perveniva comunicazione dalla Direzione di intervenuto ricovero del detenuto presso l’Ospedale San Paolo dal 2.1.2020 e la richiesta avanzata dalla difesa di autorizzare una visita specialistica da parte di medici di fiducia del condannato veniva autorizzata il 22.1.2020 ed eseguita il 13.2.2020.

Dalla relazione sanitaria aggiornata al 24.3.2020. si apprende che Di Piazza Vincenzo è tutt’ora ricoverato presso la 5 Divisione di Medicina protetta dell’Ospedale San Paolo di Milano. Riferisce il direttore del reparto che il quadro clinico anamnestico era caratterizzato da cardiopatia ischemica coronarica con pregressa rivascolarizzazione coronarica chirurgica nel 2009, stenosi aortica moderata, diabete mellito. posizionamento di doppio stent medicato. Al rientro in reparto veniva inquadrata la componente vascolare e neuropatica relativa al piede diabetico che comportava l’amputazione del II e III dito del piede sinistro.

In seguito, le valutazioni angiografìche e chirurgiche successive al primo intervento, nonché il riscontro di un quadro recidivante di setticemia, davano purtroppo indicazione all’amputazione dell’intero arto inferiore sinistro”. Tale intervento veniva eseguito il 23.3.2020 e il medico riferisce che “le condizioni cliniche del paziente appaiono estremamente compromesse, con un quadro di shock ipovolemico tamponato dalla continua  infusione’. Nelle conclusioni si legge: ”paziente in precarie condizioni cliniche caratterizzate da cardiopatia ischemica con esiti di Ptca con stent in labile compenso emodinamico e diabete mellito complicato da grave vasculopatia periferica con esiti di amputazione radicale all’arto inferiore sinistro. Le condizioni generali del paziente richiedono un elevato grado di assistenza sia medica che infermieristica. Non si ravvedono sostanziali miglioramenti del quadro in un prossimo futuro”.

Alla luce di quanto sopra illustrato, le condizioni di salute del detenuto devono considerarsi gravi, che facoltizza questo magistrato a provvedere con urgenza al differimento dell’esecuzione della pen.. Invero, dalla relazione sanitaria aggiornata si evince che le malattie che affliggono Di Piazza Vincenzo non sembrano rispondere con efficacia alle cure. Pertanto dispone il differimento della pena.

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