La Stidda in soccorso di Nicitra, Calafato: “Siamo andati a Roma con l’esplosivo”
Il collaboratore di giustizia, un tempo leader della Stidda, irrompe nuovamente nel processo scaturito dalla maxi inchiesta Jackpot
Il collaboratore di giustizia Giovanni Calafato, per anni leader della Stidda di Palma di Montechiaro, irrompe nuovamente nel processo scaturito dalla maxi inchiesta Jackpot, l’indagine che ha fatto luce sulla figura di Salvatore Nicitra, palmese anche lui, considerato il padrone assoluto del quadrante nord di Roma. Dai rapporti con la famigerata Banda della Magliana alle parentele e collusioni con i clan della Stidda e le famiglie mafiose dell’agrigentino che, alla fine degli anni ottanta, diedero vita ad una sanguinosa guerra di mafia. In questo stralcio, che si sta celebrando davanti la terza sezione della Corte di Assise di Roma presieduta dal giudice Antonella Capri, sono tre gli imputati: Salvatore Nicitra, Calogero Farruggio e Giovanni Calafato, tutti di Palma di Montechiaro.
Al centro del processo ci sono una serie di delitti, risolti tutti a distanza di quasi 40 anni, maturati nell’ambito di una faida per il controllo della zona nord della Capitale: Valentino Belardinelli, ucciso nel 1988 mentre rincasava (armato) con la fidanzata; “Bebo” Belardinelli, pezzo da novanta della mala di Roma nord entrato in contrasto con Nicitra (entrambi vicini a Renatino De Pedis) rimasto vittima di un agguato il 12 novembre 1988 quando più uomini armati esplosero numerosi colpi contro lui e Paolino Angeli, deceduto nell’immediato, e Franco Martinelli, che rimase ferito ma si salvò; Giampiero Caddeo, morto nel 1983 nell’ospedale psichiatrico di Aversa. Una parete divisoria della sua cella era crollata per l’esplosione della bomboletta di un fornello a gas, innescata da Nicitra per uccidere proprio Roberto Belardinelli che, in quel momento, era pero’ assente. Un ruolo fondamentale per portare alla luce questi cold case lo hanno avuto i collaboratori di giustizia che, a partire dal 2015, hanno fornito un importante contributo: Giovanni Calafato, che si è autoaccusato di essere l’esecutore materiale di uno dei fratelli Belardinelli; Giuseppe Marchese, cognato di Leoluca Bagarella; Maurizio Abbatino, storico capo della Banda della Magliana e, appunto, Giuseppe Croce Benvenuto.
Ieri mattina è comparso in aula il collaboratore di giustizia, che in questo processo è anche imputato, Giovanni Calafato. Il palmese per circa due ore ha risposto alle domande del pm Stefano Luciani tracciando il profilo di Salvatore Nicitra ma ricostruendo anche uno spaccato di mafia agrigentina lungo trent’anni. Ecco la sua deposizione.
Sulla Stidda: “Mi dedicavo alle rapine ma poi abbiamo deciso di fare guerra a Cosa nostra di Palma di Montechiaro e Canicattì. I mafiosi erano invidiosi, anche se avevamo amicizie con loro, ma ci volevano fare le scarpe e ci volevano ammazzare. Noi li chiamavamo code piatte perché per noi erano come gli spioni, andavano d’accordo con i carabinieri e il nome deriva dalla divisa dei militari dell’Arma. La stidda è nata per questo motivo, a questa gente non piaceva fare confidenze. La realtà era questa poi magari non piace ma è così.”
Sulle frizioni tra Stidda e Cosa nostra: “Il mio gruppo era composto da Calogero Farruggio, Giuseppe Bonello, Giuseppe Croce Benvenuto, Paolo Amico, Gaetano Puzzanghero e altri ancora. Decidiamo di fare la guerra alla mafia di Canicattì e Palma di Montechiaro. I nostri gruppi venivano chiamati paracchi, cioè tutti sotto lo stesso ombrello. I rapporti all’apparenza erano buoni ma nella mente delle persone poi c’era altro. A Palma di Montechiaro il reggente di Cosa nostra era Salvatore Di Vincenzo detto “Totò Naso”. Il suo posto è stato poi preso dal genero Sambito che poi è stato ucciso per ordine di Riina perché si diceva che era amico di Bontade. Infine sulla carta il reggente diventò Andrea Palermo ma chi comandava realmente erano i fratelli Ribisi. Quelli che contavano di più erano Ignazio, Pietro, Rosario e Gioacchino. Quest’ultimo era stretto con il gruppo di fuoco di Totò Riina. Quando capiamo che ci vogliono uccidere allora ci organizziamo per fare guerra a Cosa nostra e il primo atto di questa guerra è quello di uccidere Gioacchino Ribisi anche se prima c’è l’uccisione di Nicola Brancato, il suo braccio destro, ma non siamo stati noi. La guerra si allarga anche fuori la provincia di Agrigento. Noi a Canicattì stringiamo alleanza con gli Avarello, i Gallea e i Parla.
La trasferta a Roma: “Farruggio lo conosco a partire dall’inizio degli anni ottanta, abbiamo cominciato a fare rapine insieme. Lui è sposato con una cugina di Salvatore Nicitra. Nel carcere di Agrigento ho saputo da Farruggio che Benvenuto era andato a Roma per uccidere i fratelli Belardinelli ma non ci era riuscito perché si nascondevano ed erano introvabili. Nicitra ci aveva chiesto la cortesia di ammazzare i Belardinelli. Sono salito diverse volte a Roma. La prima volta insieme a Lillo Farruggio. Abbiamo studiato diversi modi per uccidere i Belardinelli anche con un’autobomba. Mi sono fatto dare dell’esplosivo e i detonatori da Parla di Canicattì e lo abbiamo salito in auto nascosto nella portiera dell’automobile. Se non ricordo male si trattava di una decina di chili di esplosivo. Parte di questo materiale proveniva dalle cave di Montallegro. Nicitra mi dice di ammazzare per primo Bebo Belardinelli che era il più pericoloso. Il progetto di utilizzare l’esplosivo non fu messo poi in pratica perché questo cambiava sempre macchina e residenza. Abbiamo anche tentato di eseguire l’attentato nei pressi del commissariato di Primavalle perché Belardinelli aveva l’obbligo di firma.”