Motivazioni del processo Montagna: Ecco perché è stato assolto il boss Pasquale Fanara
L’ultima notizie riguardante il processo “Montagna” è questa: Il Gip del Tribunale di Palermo, Marco Gaeta, ha accolto l’istanza avanzata dai difensori di Stefano Valenti 53 anni, imprenditore di Favara soprannominato “pipa”, avvocati Angela Porcello e Raffaele Bonsignore, e ne ha disposto in data odierna, come chiesto, la sostituzione della misura carceraria a cui era […]
L’ultima notizie riguardante il processo “Montagna” è questa: Il Gip del Tribunale di Palermo, Marco Gaeta, ha accolto l’istanza avanzata dai difensori di Stefano Valenti 53 anni, imprenditore di Favara soprannominato “pipa”, avvocati Angela Porcello e Raffaele Bonsignore, e ne ha disposto in data odierna, come chiesto, la sostituzione della misura carceraria a cui era sottoposto degli arresti domiciliari con dispositivo elettronico fuori dalla provincia di Agrigento.
Valenti, infatti che dall’11 gennaio 2018, è stato recluso in custodia cautelare carceraria presso il carcere La Valletta di Torino, era imputato del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, oltre che di talune estorsioni (consumate e tentate) aggravate dalla finalità di agevolazione mafiosa nonché di alcune ipotesi di trasferimento fraudolento di valori endofamiliari, ma dal Gip Gaeta, in esito al giudizio, è stato ritenuto responsabile unicamente in relazione al delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, così dequalificata l’iniziale contestazione di partecipazione mafiosa, ed assolto da tutte le atre imputazioni, tanto che alla richiesta di pena formulata dai pubblici ministeri della Dda a venti anni di reclusione è seguita l’applicazione alla pena di 6 anni 6 e 8 mesi.
La posizione di Stefano Valenti, inteso “Pipa” si intreccia con quella di Pasquale Fanara, vecchia conoscenza degli investigatori antimafia che nel processo Montagna ha ottenuto una clamorosa assoluzione e immediata scarcerazione dopo parecchio tempo trascorso in carcere.Ecco, con il deposito delle motivazioni della sentenza “Montagna (rito abbreviato) ad opera del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo Marco Gaeta, è possibile scoprire il perchè di siffatta clamorosa assoluzione spiegata in 1.160 pagine.
Scrive il giudice: Pasquale Fanara risponde in giudizio di essere rappresentante della ‘famiglia’ mafiosa di Favara e Stefano Valenti quale uomo di fiducia di Pasquale Fanara.
Inevitabilmente, quindi, le due posizioni si intersecano sul piano probatorio, anche e soprattutto in considerazione del fatto che nel corso delle indagini sono state intercettate varie conversazioni tra di loro. E però, si deve anzitutto osservare che i colloqui intercettati tra Pasquale Fanara e Stefano Valenti non rivelano univocamente la attuale appartenenza né dell’uno dell’altro all’associazione mafiosa ‘cosa nostra’, segnatamente alla “famiglia’ di Favara. Si è usato l’avverbio ‘attuale’ giacché entrambi hanno riportato una condanna irrevocabile per il delitto di cui all’art. 416bis cod. penale: Pasquale Fanara è stato condannato alla pena di anni sei di reclusione per il delitto di partecipazione all’associazione mafiosa ‘cosa nostra’, commesso sino al 12 gennaio 1999 ed è stato scarcerato per fine pena l’11 giugno 2007. Egli, inoltre, è stato nuovamente detenuto in carcere dal 09 giugno 2011, allorquando veniva arrestato in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip del Tribunale di Palermo poichè ritenuto responsabile del reato di tentato omicidio in pregiudizio di Salvatore Salemi, sino 12 novembre 2013, a seguito della sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo.
Tanto premesso, nei colloqui intercettati nel corso delle indagini successivamente alla scarcerazione del Fanara (come detto il 12 novembre 2013) sovente i due hanno fatto riferimento a Giuseppe Quaranta e ai suoi comportamenti. Più in particolare, Fanara si lamentava degli atteggiamenti dei Quaranta, reo di comportarsi in maniera spregiudicata e, soprattutto, di agire e ‘parlare’ come se fosse autorizzato a spendere il suo nome, circostanza che lo irritava alquanto, essendo stato da poco scarcerato e temendo quindi che gli impropri comportamenti dei Quaranta potessero danneggiarlo. Le conversazioni dimostrano indubbiamente una qualche consapevolezza da parte degli interlocutori delle dinamiche mafiose della zona, con particolare riguardo al legame tra Francesco Fragapane e Giuseppe Quaranta; esse, però, non sono rappresentative, sul piano probatorio, di una partecipazione all’associazione mafiosa, non rivelando la prestazione di un attivo contributo ad essa, ma — semmai — la preoccupazione di restare coinvolti in una indagine solo a causa dei comportamenti scorretti del Quaranta.
Con particolare riguardo al Fanara, appena scarcerato dopo un periodo di detenzione conclusosi con una assoluzione in appello, le conversazioni intercettate si prestano a due diverse chiavi interpretative: 1) un suo disinteresse alle attuali dinamiche mafiose e, correlativamente, una volontà di rimanere estraneo all’associazione, ciò che potrebbe giustificare l’irritazione nei confronti del Quaranta, soggetto scelto da Francesco Fragapane come suo rappresentante ma incapace di gestire ed esercitare tale delicato compito senza trascendere in comportamenti scorretti, quali quello di millantare rapporti con il Fanara; 2) l’intenzione di non apparire, di continuare a far parte di ‘cosa nostra’ ma con modalità ‘silenziose’, si da evitare un coinvolgimento nelle indagini e, in ipotesi, un nuovo periodo di carcerazione. Anche questa lettura delle conversazioni tra Fanara e Valenti è compatibile con il risentimento del primo verso il Quaranta, il quale, essendo aduso a ‘parlare troppo’ lo stava esponendo proprio a quei rischi che con la sua “partecipazione silenziosa’ il Fanara intendeva evitare. L’equivoco valore probatorio delle intercettazioni non è stato sciolto neppure da colui che avrebbe dovuto chiarire se il Fanara fosse o meno nuovamente attivo nella consorteria mafiosa dopo la sua scarcerazione.
Nel corso dei tre interrogatori resi nel corso dell’indagine, Giuseppe Quaranta ha raccontato che nel corso del 2013 Fragapane, consapevole che di lì a poco sarebbe stato nuovamente arrestato per una pena definitiva da scontare (arresto effettivamente realizzatosi il 9 ottobre 2013), lo aveva incaricato di riorganizzare, insieme ad altri soggetti (Calogero Lìmblici e Rosario Chianetta), la ‘famiglia’ di Favara, sollecitandolo anche a contattare Pasquale Fanara, una volta che costui fosse uscito dal carcere, per farsi aiutare nelle realizzazione di tale programma.
Quaranta ha riferito (interrogatorio del 31 gennaio 2018) di aver incontrato casualmente Fanara una volta che questo era ritornato in libertà, di avergli riportato il messaggio di Francesco Fragapane, ma di aver ottenuto una risposta interlocutoria, essenzialmente motivata dalle sofferenze patite durante i lunghi anni di detenzione [(mi disse) “una serie di cose ‘cu c’hu fia fare..ara Virimu…in galera… guai nivuri..senza soldi…scurdata d’emici…poi vediamo’ e siamo rimasti al primo incontro ‘poi vediamo’”;]. In realtà, proseguendo il discorso il Quaranta ha accennato ad un successivo incontro con il Fanara – incontro ancora una volta causale – ma i Pubblici Ministeri non hanno invitato il Quaranta a spiegare cosa si fossero detti in quella seconda occasione lui e Fanara, sicché il dichiarante non ha chiarito se quest’ultimo abbia o meno accettato di ‘riattivarsi’ in ‘cosa nostra’ per contribuire alla riorganizzazione della ‘famiglia’ di Favara.
Nel prosieguo dell’interrogatorio Quaranta ha riconosciuto in fotografia il Fanara, ma ha reso sul suo conto informazioni non attuali, bensì relative ai suoi precedenti periodi di detenzione, collegando la sua ‘reggenza’ di Favara non a una conoscenza precisa della attuale condotta del Fanara, bensì al suo passato criminale. Solo nel corso dell’interrogatorio del 2 febbraio 2018 Quaranta ha raccontato un episodio che ha coinvolto Fanara. Sulla carta post pay del figlio Giuseppe Quaranta dei criminali calabresi avevano fatto una ricarica di cinquecento euro, affinché questi soldi fossero consegnati alla famiglia Fragapane a cagione dello stato detentivo di Francesco Fragapane.
Su consiglio di Pasquale Fanara, invece, queste somme era state da loro trattenute: duecentocinquanta euro li aveva dati al Fanara e altri duecentocinquanta li aveva tenuti per sé.
Ora, si tratta di un episodio che non denota la prestazione di alcun contributo per l’associazione ‘cosa nostra”, ma, semmai, la volontà di appropriarsi del denaro destinato ad un esponente apicale di essa (dal che può ipotizzarsi anche la scelta del Fanara di non operare più per l’associazione); ma si tratta anche di una vicenda in cui Quaranta potrebbe aver enfatizzato il contributo del Fanara al fine di dimostrare la sua onestà rispetto a coloro che lo avevano ‘messo da parte’ e che lo avevano accusato di non aver fatto pervenire denaro alla famiglia Fragapane, facendo in tal modo ricadere su di lui la colpa della decisione di non far pervenire ad essa il denaro ricevuto. D’altronde, Quaranta era il rappresentante di Francesco Fragapane, sicché non era in alcun modo tenuto a richiedere un assenso a Pasquale Fanara, né può dirsi che Fanara avesse in qualche modo assuntonel frattempo la ‘reggenza’ della ‘famiglia’ di Favara.
All’udienza del 24 giugno 2019 è stato acquisito il verbale di interrogatorio reso da Giuseppe Quaranta in altro procedimento il 16 marzo 2018 nel corso del quale egli ha indicato in Giuseppe Sicilia il reggente della ‘famiglia’ di Favara. Ora, se anche può ipotizzarsi che il dichiarante abbia fatto riferimento ad un periodo temporale successivo a quello in cui Fanara avrebbe operato ponendosi al vertice della stessa ‘famiglia’ o anche ad una corrente diversa da quella della ‘linea Fragapane’, è chiaro che tale diversa indicazione non contribuisce a fare chiarezza sulla prestazione o meno da parte del Fanara di un contributo per ‘cosa nostra’ e rende ancor più verosimile che le accuse mosse sul conto di quest’ultimo da parte del Quaranta fossero più che altro delle deduzioni legate al passato criminale del soggetto.
Gli altri elementi di prova valorizzati dal Pubblico Ministero a carico di Pasquale Fanara sono equivoci, o, piuttosto, hanno un valore indiziario marginale.
Si tratta di conversazioni che denotano: la conoscenza da parte del Fanara di soggetti mafiosi e il suo interessamento per risolvere delle loro controversie personali, che nulla hanno a che vedere con gli interessi di ‘cosa nostra’ (vicenda tra Filippo Focoso e Calogero Limblici); come l’imputato non si sia moralmente allontanato a ‘cosa nostra’, alla quale almeno almeno ideologicamente ha continuato ad aderire. Ora, se è vero che per un verso il riferimento del Maranto al Fanara può essere indicativo di una attuale attiva partecipazione del secondo a ‘cosa nostra’, è altrettanto veroche l’inerzia del Fanara (..mi doveva dare due risposte…sta facendo due ami..) rispetto ad una richiesta ricevuta non appena scarcerato – Fanara era uscito dal carcere il 12 novembre 2013 – e la frase del Giambrone (è una che si va nascondendo dietro le macchine), possono allo stesso modo lasciare fondare una conclusione opposta, ossia rivelare un atteggiamento di distacco dell’imputato rispetto alle richieste di collaborazione che altri sodali gli veicolavano conoscendolo quale soggetto inserito in ‘cosa nostra’.
Anche rispetto all’unico reato fine contestatogli (l’estorsione ai danni di Di Paola Roberto), il coinvolgimento del Fanara, oltre a non essere dimostrativo di una partecipazione concorsuale ad esso, è ambiguo ed equivoco: egli non ha attivamente partecipato alla estorsione, né si è dimostrato interessato in prima persona alle sorti di essa, ma ha raccolto lo sfogo di Gerlando Valenti (che, come si vedrà non è partecipe di ‘cosa nostra’), consigliandogli di lasciar perdere Giuseppe Quaranta, soggetto ormai ‘finito’ (“e‘ più il danno che ha combinato che tutte le altre cose..”) che si era accordato con due esponenti mafiosi di Comiso, Carmelo Battaglia e Concetto Errigo, per mettere in atto una richiesta estorsiva ai danni della Di Paola s.a.s., ma che poi non aveva mantenuto gli impegni presi, sicché i due si erano recati a Favara alla ricerca sia del Quaranta che del Valenti. Gli elementi di prova valorizzati dal Pubblico Ministero, in conclusione, tratteggiano Pasquale Fanara come soggetto a conoscenza della dinamiche dell’associazione mafiosa di cui ha fatto parte e che dopo la sua scarcerazione ha continuato ad orbitare attorno ad essa, senza però svolgere un ruolo attivo e, quindi, senza prestare un contributo causalmente rilevante ex art. 416bis codice penale. Anzi, le dichiarazioni del Quaranta e quelle registrate nel corso di una conversazione tra Maranto e Calogerino Giambrone rivelano il timore di poter nuovamente restare coinvolto in vicende illecite e, dunque, il tentativo di restare in disparte e di tenersi in qualche modo lontano dalla vita dell’associazione.
La circostanza che Fanara sia gravato da un precedente penale specifico per partecipazione a ‘cosa nostra’ non può sopperire a questo quadro di incertezza probatoria, né ritenere superflua la prestazione di un contributo causale.Invero, non risulta che Pasquale Fanara sia ‘uomo d’onore’ di ‘Cosa Nostra’ (le generiche supposizioni di Giuseppe Quaranta sono in tal senso irrilevanti) e la condanna da lui subita attiene ad un periodo temporale talmente lontano (sino al 1999) che non si può innestare in una linea di continuità con quanto accertato delle recenti indagini.
Invero, se si tiene conto che nulla si sa sull’eventuale partecipazione del Fanara a ‘cosa nostra’ nel periodo che va dai primi anni 2000 sino alla fine del 2013, l’equivocità dei dati raccolti nella presente indagine non consente di ritenere provato, al di la di ogni ragionevole dubbio, che l’imputato abbia riattivato la sua partecipazione mafiosa, men che meno con una funzione direttive della ‘famiglia’ mafiosa di Favara.