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Peppe Quaranta, dichiarazioni forti: “In Cosa nostra ad uccidere sono sempre gli amici”

Dall’aula bunker di Rebibbia, Roma Rogero Fiorentino Giuseppe Quaranta, ha ripreso nel pomeriggio di oggi nell’aula bunker di Rebibbia in Roma, a deporre nell’ambito del processo denominato “Montagna” scaturito dall’omonima operazione antimafia del gennaio di due anni fa che decapitò le cosche della provincia di Agrigento ed alcuni mandamenti palermitani, ragusani e catanesi. Il pentito […]

Pubblicato 5 anni fa

Dall’aula bunker di Rebibbia, Roma

Rogero Fiorentino

Giuseppe
Quaranta, ha ripreso nel pomeriggio di oggi nell’aula bunker di Rebibbia in
Roma, a deporre nell’ambito del processo denominato “Montagna” scaturito dall’omonima
operazione antimafia del gennaio di due anni fa che decapitò le cosche della
provincia di Agrigento ed alcuni mandamenti palermitani, ragusani e catanesi.

Il pentito incollato alla seggiola e  seguito a vista da due uomini delle forze dell’ordine che stanno alle spalle, continua nella sua testimonianza per lungo tempo a braccia conserte. Sempre composto, quasi come uno scolaro a lezione,  continua ad illustrare la storia di un pezzo di mafia che ha certamente ancora bisogno di dettagli, chiarezza.

Carcere Rebibbia Roma, aula bunker: i difensori degli imputati

Giuseppe
Quaranta è uno di quelli che si ricorda. Robusto, fare sciolto e sicuro,
carnagione olivastra, mani grandi, passo che punta verso l’esterno. Fuori dalle
aule dei tribunali era sicuramente uno che si faceva rispettare, uno che a
trovarselo davanti serioso o minaccioso possono tremare le gambe. È in aula con
una penna nel taschino che non usa e che forse non scriverà mai, ma che compone
il puzzle del “personaggio Peppe Quaranta, oggi – a suo dire – “pentito”. Capo
un po’ chino, lato volto destro appoggiato al pugno della sua mano. Comincia
con questa immagine dell’imputato Quaranta la seconda parte del primo giorno –
dei due previsti – del processo “Montagna” a Giuseppe Quaranta.

“Quando
ho finito i primi domiciliari – afferma – sono stato avvicinato da alcuni, da
Fanara, per rientrare. Sono stato contattato da Antonio Massimino, ho avuto
incontri con Calogero Lombardozzi alla Stazione di Agrigento. Un pezzo da
novanta. Se una persona viene posata, non 
deve sapere niente ed a niente può mischiarsi. Con Cosa nostra o sei o
non sei. A uccidere sono sempre gli amici. Io avevo più paura quando ero fuori
che dentro Cosa nostra. Quando sono stato posato avevo più paura, a tradirti
sono quelli con cui hai mangiato e fatto le estorsioni. Mai terze persone”.

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